Autore: Laura

  • l’amore al tempo delle divinità – seconda parte (Kamadeva)

    avatar” (parecchio prima di essere un film) è il termine usato per indicare le manifestazioni salvifiche di una divinità nel mondo e Visnu è, per contratto, quello della Trimurti (la Trinità indiana composta da Brahma, l’Iniziatore della Vita, Vishnu il Conservatore della VIta, Shiva il Distruttore) il più gettonato ad apparire ogni volta che un Universo sta per collassare anzitempo. 
    vista la vocazione, è naturale che sia lui a seguire  pazientemente Shiva nella sua danza selvaggia e disperata.
    ogni volta che può, Visnu taglia un pezzo del corpo senza vita di Sati: spera che, quando Shiva si ritroverà senza il cadavere tra le braccia, si fermerà, finalmente, e allora la Dea potrà rinascere.
    così sulla terra cade una pioggia di parti della Dea (52, per alcuni 108, comunque un bel po’), e i luoghi in cui cadono, lungi dall’essere il raccapricciante teatro di una scena splatter, saranno invece per sempre sacri e benedetti dalla Dea.
    [comunque non sono solo le Dee a venire affettate: infatti l’episodio della Dea fatta a pezzi ricorda da vicino un’altra storia, quella “mediterranea” di Iside e Osiride, solo che lì è il Dio, Osiride, a venir e ucciso smembrato in 14 parti (numero associato ai cicli lunari: il tempo che la luna ci mette a crescere e calare), creando altrettanti luoghi sacri].
    quando Shiva si accorge che il corpo di Sati non c’è più, si toglie dal mondo ben deciso a non tornarci, sprofondando in meditazione nei reconditi meandri di un picco montuoso. 

    in India, però, niente è eterno,  nemmeno la morte:  la Dea rinasce.
    stavolta da re Himavat (l’Hymalaya), con il nome di Parvati, che infatti vuol dire montagna.
    e di nuovo dimostra fin dall’infanzia una vera e propria fissazione per Shiva. lo prega in continuazione, ne adora l’immagine come le ragazzine di un  tempo veneravano i poster con le effigi dei cantanti dell’epoca (mi accorgo – sic! – solo ora che ignoro se gli adolescenti contemporanei conservino quest’usanza vetusta o se l’abbiano sostituita con altro…).
    qui entra in gioco uno dei rishi, che sono i saggi coi superpoteri: si chiama Narada.
    per una serie di circostanze (che naturalmente stanno dentro un’altra storia), Narada è destinato a viaggiare senza tregua tra i vari mondi. una sera lo trovi a cena con Visnu e Lakshmi, la mattina dopo se ne sta sulle rive del Gange in compagnia dei bramini…non solo Narada sa il fatto suo, ma è anche sempre informatissimo sulle ultime novità dei tre mondi.
    nel suo girovagare, arriva sull’Himalaya e predice a Parvati e ai suoi genitori che la fanciulla è la predestinata compagna di Shiva; stavolta il padre della Dea è contento della notizia e, benché si sappia che Shiva è pietrificato dal dolore e non degni di uno sguardo non dico le donne, ma nessuno al mondo, Himavat decide di accompagnare Parvati presso il Dio.
    infatti, combinazione!, Shiva per il suo ritiro ha scelto proprio una delle montagne che stanno nel regno di Himavat, e siccome il re fa in modo che la sua meditazione non venga mai turbata, Shiva ricambia la gentilezza accogliendo la richiesta che Parvati rimanga presso di lui per servirlo.
    anche se Shiva acconsente, non gli scappa un’occhiata a questa bellissima fanciulla, e tantomeno si accorge che in lei, in Parvati, Sati ha ripreso vita. 
    vedendo che Parvati veniva accompagnata alla montagna di Shiva, l’ansia dei deva si era placata, solo per lasciare nuovamente posto alla disperazione: la meditazione del Dio è troppo profonda, non si riesce proprio a riportarlo nel mondo.

    tra i deva c’è Kama, il dio del desiderio [siamo abituati a conoscerlo come Eros].
    è un bellissimo giovane, armato di arco e frecce fiorite, dalla mira infallibile e dal risultato certo: chiunque venga colpito dai suoi strali, cede al desiderio.
    proprio chiunque, ci è cascato anche Brahma che lo ha generato (tanto per cambiare, questa è un’altra storia).
    è l’unico che può accelerare le cose, così i deva lo convincono a intervenire.
    Kama parte insieme alla sua inseparabile compagna Rati, la passione,  e per questa missione  si fa accompagnare anche da Vasant, la primavera.
    così, sul quel picco montano gelido e lontano dai clamori del mondo, improvvisamente è tutto un fiorire, cinguettare e soffiar di zefiri che già da solo scioglierebbe anche il cuore più freddo.
    Shiva però non muove un muscolo da eoni, e continua a restare sprofondato in meditazione.
    in questa cornice leziosa e propizia, Kama scocca sicuro il suo dardo e colpisce Shiva, esattamente nel momento in cui Parvati gli si trova davanti.
    i deva si sono precipitati a spiare la scena, nascosti dalla vegetazione.
    tutti trattengono il fiato. 
    Kama, Rati, Vasant, Parvati, i deva
    Shiva apre un occhio, uno solo, il terzo occhio al centro della fronte.
    finalmente si è mosso!
    ma lo sguardo del terzo occhio di Shiva incenerisce, all’istante, Kama, che lo ha disturbato.
    tutti si disperano. 
    i devache non vedono vie d’uscita alla sconfitta da parte di Tarakasura. Rati che, incredula, raccoglie le ceneri dell’amato.


    qualcos’altro, però, è successo: nell’incenerire Kama, Shiva una sbirciata al mondo l’ha dovuta dare.
    e ha visto Parvati.
    e se ne è invaghito, all’istante.
    nessuno può resistere a Kama!

    Shiva però è un po’ confuso dalla situazione e non comprende subito che Parvati e Sati sono la stessa Dea.
    così Parvati, visto che stare presso Shiva non serve a far sì che lui si accorga della sua dedizione, pensa che per vincere il cuore del Dio deve dedicarsi all’ascesi, come aveva fatto un tempo lontano, di cui ha forse pochi e sfocati ricordi: se ne va nella foresta, si nutre solo di foglie, si copre con abiti di corteccia, medita tutto il tempo.
    un giorno, un giovane bramino arriva presso di lei. 
    poiché una ragazza bellissima e certamente di nobile casato che pratica l’ascesi in una foresta è una visione surreale, il bramino le chiede il motivo della sua presenza lì.
    Parvati spiega che sta cercando di attirare l’attenzione di Shiva.
    il bramino non crede alle sue orecchie: ma come?!? una principessa innamorata di quel dio così poco presentabile?
    mai parlar male dell’amato a una fanciulla innamorata: Parvati a momenti lo strozza.
    il bramino, però, non è un vero bramino, è Shiva travestito che, incredulo, ha messo alla prova l’amore di Parvati; la reazione della Dea gli basta per manifestarsi.

    il racconto finisce qui, con l’unione felice di Shiva e Shakti, con la certezza che, prima o poi, il demone Takasura potrà essere vinto dal figlio di Shiva e con il povero Kama che, su gentile concessione di Shiva che lo ha incenerito, rinascerà presto. per la cronaca anche Daksha, il padre di Sati, verrà resuscitato da Shiva e, al posto della testa che gli è stata mozzata, avrà per sempre quella di una capra.

    i miti, lo sappiamo bene, raccontano di noi, di ciascuno di noi.
    ci parlano oltrepassando gli schemi, superando le rassicuranti logiche della mente raziocinante.
    vanno dritti alle viscere.
    l’amore tra Shiva e Shakti è la storia di una scoperta, dell’incontro tra aspetti prima sconosciuti.
    non basta un contatto fugace, non basta l’intuizione dell’esistenza di qualcosa d’altro: l’elemento incontrato va integrato, perché gli aspetti di noi che non comprendiamo del tutto causano distruzione e sofferenza.
    Shiva e Sati non vengono riconosciuti da Daksha e finisce male: Sati implode e si uccide; Shiva esplode e distrugge tutto ciò che trova. 
    è la disintegrazione totale.
    le cose cambiano solo quando entra in gioco Kama, il Desiderio, l’energia suprema, il motore della Creazione, della Vita.
    è la divinità più potente, tanto che non c’è elemento che possa resistergli: senza desiderio, il mondo non esisterebbe.
    Kama è il primo movimento, è la prima scintilla alla Vita. 
    è il desiderio muoverci e a muovere il mondo.
    ma mettere in campo Kama non è una passeggiata: serve Tarakasura, il rischio del collasso totale.
    solo allora Kama interviene e ci spinge oltre i nostri limiti, oltre le nostre paure, oltre i nostri timori.
    solo allora Shiva e Shakti possono incontrarsi e integrarsi reciprocamente, davvero.

    solo allora il mondo può iniziare, ancora una volta.
    [prima parte qui]

  • l’amore al tempo delle divinità – prima parte (Shiva e Sati)


    cosa significa l’amore tra il Dio e la Dea?

    che conseguenze ha nella percezione di noi stessi e nel nostro modo di attraversare le esperienze della Vita?
    chi è Shiva?
    chi è Sati?
    chi è Parvati?
    cosa c’entrano con lo Yoga, col Tantra?
    ecco la storia.

    Shiva, il Dio, è il principio Maschile (attenzione, NON uomo, ma principio energetico maschile!).
    è un dio strano: sembra un vagabondo, coperto di cenere, seminudo, scalzo, spettinato, con una falce di luna tra i capelli e il fiume Gange che gli sgorga sulla testa (questa, però, è già un’altra storia), adornato con monili di serpenti vivi.
    se ne sta eternamente raccolto in meditazione in qualche picco montano, inaccessibile quanto lui.
    la Dea, la Shakti, è la potenza, l’energia, è la Vita, il principio energetico Femminile.
    facciamo iniziare la storia nel momento in cui Brahma, che per l’appunto è il dio dell’inizio, chiede alla Dea, alla Shakti, di incarnarsi in una donna e portare Shiva nel mondo, nella Vita, distogliendolo dalle sue pratiche ascetiche (le motivazioni di Brahma stanno in un’altra storia ancora).
    La Dea accetta e sceglie di nascere al mondo come figlia di Daksha: questo signore è un re arcinoto ed è nientepopodimeno che figlio di Brahma stesso.
    Daksha è un fervente e rigoroso adoratore della Dea, e la sua gioia è enorme quando riceve in sogno una visita proprio della Dea in persona, che gli dice “ho scelto te e la tua sposa come genitori, mi incarnerò nel grembo di tua moglie. sarò vostra figlia ma, attenzione: non dimenticarti mai che anche come tua figlia, sarò pur sempre la Dea. trattami con rispetto perché, se non lo farai, me ne andrò immediatamente”.
    non fa fatica a promettere, Daksha.

    così nasce Sati, la Dea incarnata.
    è una spettacolare principessa, una meraviglia della natura per bellezza, saggezza e intelligenza.
    Daksha è felice e non vede l’ora di maritarla a qualche valoroso re del circondario.
    ne arrivano a ondate, di pretendenti, da tutto il mondo. ciascuno incantato dal  fascino di Sati, ciascuno chiedendola in sposa.
    solo che lei, Sati, rifiuta tutti.
    ha un pensiero fisso: da quando è nata, lei vuole solo Shiva.
    il che è complicato, dato che lui, Shiva, se ne sta per l’appunto in meditazione sulla montagna più alta del mondo, lontano da tutto e decisamente inadatto alla vita di corte che una principessa dovrebbe condurre.
    ma Sati è irremovibile.
    o Shiva, o niente.
    Daksha si deve arrendere all’evidenza: Sati non sposerà alcun re.
    la stessa Sati decide di lasciare gli agi delle reggia paterna e di ritirarsi in meditazione nei boschi, pensando che l’unico modo per incontrare Shiva sia seguire le stesse pratiche ascetiche che il Dio conduce.

    da principessa ad eremita, la Dea incarnata pratica il digiuno, la meditazione e l’ascesi come se non avesse mai fatto altro in vita sua; con tale concentrazione da surriscaldare gli iperurani dove i deva dimorano.
    lassù finiranno arrostiti se non si mette fine in qualche modo alle pratiche di Sati, e tutti allarmati i deva chiedono a Shiva di aiutarli. il mestiere di un dio è ascoltare le suppliche e esaudirle, e Shiva esce dalle sue austerità: nota Sati, se ne innamora e i due convolano a nozze.
    …e vissero felici e contenti? nemmeno per sogno.

    infatti c’è chi non è per niente contento di questo finale: Daksha, il padre di Sati.
    c’era stato un piccolo “misunderstanding” tra i due, in passato, del tipo che ti capita quando incroci qualcuno che forse non sei sicuro di riconoscere o che ti riconosca e quindi passi oltre senza rivolgergli nemmeno un cenno di saluto, magari fingendo di non averlo notato.
    beh, la prossima volta che vi capita, ricordatevi di questo mito.
    e salutate per primi (l’episodio è di per sé un’altra storia ancora).
    insomma tra Daksha e Shiva c’è della ruggine; quel genero sporco, disordinato, impresentabile e indifferente alle cerimonie, a Daksha non va proprio a genio.
    e un bel giorno decide di vendicarsi organizzando una grande cerimonia rituale.
    invita tutti: tutti i deva, Brahma e Visnu (che insieme a Shiva compongono la Trimurti, la trinità di divinità più potenti delle altre), i rishi (i saggi dei tre mondi, dotati di superpoteri divini), i re….tutti sanno del grande rituale, tutti sono stati invitati: ciascuno avrà la propria parte.
    [perché le divinità nei rituali ricevono un’offerta, ed è dall’offerta che traggono nutrimento.
    in fondo, a un dio che non venisse pregato da nessuno, cosa resterebbe?]

    ci vanno tutti; tutti tranne Shiva e Sati, che invece non sono stati invitati.
    naturalmente a Shiva non potrebbe interessare meno della cosa, ma Sati decide di andare da suo padre e capire come mai non li ha chiamati.
    quando si presenta, scopre che non è affatto una dimenticanza: Daksha intendeva proprio umiliare Shiva escludendolo dal rituale,  infatti la parte di offerte normalmente destinate a Shiva non c’è…
    Daksha tratta Sati con freddezza, le dice che quel suo marito che se ne va a zonzo per campi crematori, cosparso di ceneri, non usa abiti ma una pelle di tigre intorno ai lombi (un po’ Tarzan) e porta ogni sorta di serpenti addosso, non è degno per niente di stare accanto alle altre divinità.
    in ogni caso organizzare il più grande rituale di tutti i tempi senza tener conto di colui che si era respirato il miasma emerso dal Frullamento dell’Oceano di Latte, rende il rituale stesso inutile, è solo follia.
    una follia con conseguenze pesantissime.

    avete presente quando si dice “offendersi a morte”? beh, Sati lo fa, alla lettera.
    ricorda di essere l’incarnazione della Dea.
    ricorda di aver avvisato Daksha, prima di nascere, che mai avrebbe dovuto mancarle di rispetto, cosa che invece è appena accaduta.
    e si uccide: è la perfetta Yogini e chiude immediatamente tutti i chakra: muore all’istante.

    già che la Dea si uccida sarebbe un epilogo tragico, ma ancora non è finita.
    siccome le disgrazie non arrivano mai sole, mentre tutti i partecipanti al rituale sono raggelati dallo spettacolo del cadavere di Sati, arriva Shiva.
    il quale non è certo noto per il suo buon carattere; figurarsi come può reagire al suicidio della moglie   uno che di mestiere fa il Distruttore!
    dalla sua rabbia nasce Virabhadra: un demone feroce e invincibile, che distrugge tutto.
    mena a destra e a manca, spacca teste, taglia a pezzi chiunque si trovi sul suo cammino.
    Daksha è il primo a rimetterci la testa.
    la furia sembra inesauribile, finché, all’improvviso, Shiva si trova davanti al cadavere di Sati.
    si raggela, e la rabbia cieca lascia il posto al dolore, al lutto, alla disperazione.
    Virabhadra scompare.
    il Dio prende in braccio il corpo di Sati e inizia a vagare per il mondo, piangendo disperato.
    danza la Tandava, Shiva: la danza della distruzione, col cadavere dell’amata in braccio.

    i deva sono in scacco: finché Shiva non si stacca dal cadavere di Sati, al quale il potere del dio impedisce di decomporsi, la Dea non potrà reincarnarsi.
    ed è invece urgente che la Dea torni nel mondo, perché nel frattempo il terribile asura (demone) Taraka sta sconfiggendo i deva.
    come Mahishasura, anche Tarakasura si è meritato, sempre da Brahma, l’esaudimento di un desiderio.
    ma, più astutamente rispetto al demone-bufalo, ha chiesto di poter essere sconfitto solo da un figlio di Shiva e Shakti, ben sapendo che Shiva se ne stava da eoni in meditazione sul monte più inaccessibile del cosmo e ritenendo impossibile che la Dea potesse svegliarlo. 
    il desiderio è stato esaudito e ora la situazione è tragica: Sati è morta, la Dea non può incarnarsi di nuovo finché Shiva resta abbracciato al cadavere, il che rende impossibile il concepimento di colui che potrà sconfiggere il tremendo Tarakasura, che intanto sta facendo il bello e, soprattutto, il cattivo tempo tra i deva.

    [continua]

  • il frullamento dell’oceano di latte – seconda parte (amrita)

    qui interviene Vishnu, che prende la forma di Kurma la tartaruga e, intrufolandosi sotto la montagna, la sostiene sul proprio carapace.
    riprende il lavoro.
    tira e molla, tira e molla, tira e molla…per mille anni.
    forse per diecimila anni.
    forse di più.
    l’Oceano di latte è bolle e schiuma, non si vede altro, immersi da ondate bianche, e schiuma, e bolle, c’è spazio solo per l’immensa fatica del tira-e-molla, infinito.
    si è addirittura persa la memoria dei fatti che li hanno portati tutti lì, paradossalmente insieme, a frullare l’immenso, inconcepibile Oceano.

    poi.
    qualcosa di diverso da onde bianche e schiuma.
    qualcosa pare emergere, dallo sconfinato latte.
    un movimento differente delle onde sorprende tutti e la memoria torna e, insieme alla memoria, un barlume di speranza.

    tutto era nascosto nell’Oceano.
    ogni cosa ancora là da esistere.
    e di più.
    soprattutto stavano nell’opaco silenzio di latte degli specialissimi tesori, Ratna, che, uno dopo l’altro, vengono a galla.
    lasciando deva e asura, ancora storditi dalla fatica, a bocca aperta, immobili per la sorpresa.
    l’Oceano produce la splendida dea Lakshmi: la dea della bellezza, della fertilità, dell’abbondanza, della fortuna, che emerge dalle acque e prende subito per mano Vishnu, diventandone la consorte.
    Afrodite, si chiama nel bacino del Mediterraneo.
    [i miti raccontano parlano con immagini al nostro cuore, e il cuore dell’umanità è raggiungibile ovunque da figure simili, anche tralasciando le interessenze tra Oriente e Grecia. per la cronaca, Vishnu è il conservatore della Vita, Shiva il distruttore, Brahma il creatore]
    Parijata , l’albero divino, con boccioli che non appassiscono né svaniscono mai, e che realizza tutti i desideri.
    Sura, dea del vino.
    il medico degli dei, Dhanvantari.
    la luna, Chandra.
    Surabhi, la vacca dell’abbondanza.
    l’elefante bianco Airavata.
    Rambha, la ninfa divina.
    il cavallo bianco a sette teste, Uchchaisravas.
    l’arco di Vishnu.
    la conchiglia di Vishnu.
    il gioiello Kaustubha.
    del miasma abbiamo già detto.
    Amrita, il nettare dell’immortalità.
    eccola qua!
    [ognuno dei Ratna finisce in altre storie, affluenti dello stesso fiume mitologico]

    gli accordi svaniscono alla vista dell’Amrita e improvvisamente si genera un parapiglia confuso e totale, in cui tutti cercano di impadronirsi della coppa contenente l’agognato nettare.
    gli asura l’afferrano subito e all’istante iniziano a litigare su chi tra loro debba berne per primo.
    arriva però Vishnu non nella sua consueta veste, ma nelle meravigliose forme di Mohini, l’eterno femminino, una figura di incantevole bellezza
    la sua avvenenza stordisce tutti, al punto da convincere gli asura, completamente inebetiti da tanto splendore, a lasciare che sia lei a distribuire la bevanda.
    come negarglielo?
    Mohni inizia la sua distribuzione  danzando, dispensando agli asura del vino (in fondo era pur sempre appena emerso dalle liquide profondità dell’Oceano), ai deva, invece, l’Amrita.
    questa parte di storia finirebbe qui, con i deva che furbescamente acquisiscono l’immortalità e gli asura che agogneranno sempre all’Amrita…
    ma ci sono altre mille storie collaterali.
    c’è ad esempio il racconto del destino curioso e diverso di un asura, Rahu, che durante la distribuzione dell’Amrita si era intrufolato tra le fila dei deva.
    mentre il Sole e la Luna, in fila dopo di lui,  avvisano Mohini dell’imbroglio, Rahu riesce ad assaggiare qualche goccia di Amrita.
    purtroppo per lui non farà in tempo ad inghiottire il suo primo sorso, perché Mohini, che è pur sempre Visnu, velocissima lo decapita.
    ma le labbra di Rahu sono state fugacemente  in contatto con l’Amrita, quindi la testa dell’asura rimane immortale.
    l’aver assaggiato anche solo per poco la meravigliosa bevanda rende Rahu per sempre famelico della pozione (Obelix in salsa indiana!): la coppa con l’Amrita viene nascosta sulla Luna e l’unica parte di Rahu immortale, cioè la testa, eternamente cerca di inghiottire l’intera Luna.
    ma Rahu è una testa senza corpo, e la Luna torna sempre, scivolandogli fuori dalla gola… provocando i cicli lunari, le maree e, di fatto, contribuendo al movimento della Vita nel mondo.

    sempre i miti, anche questo, ci raccontano di noi.
    qui si narra un cambiamento.
    estrarre il burro dal latte è cambiare lo stato della materia, e la trasformazione è irreversibile.

    il mito ci avverte.
    descrive un processo psichico, e l’impegno che il cambiamento richiede: bisogna mettere d’accordo deva e asura, integrare e armonizzare le nostre qualità energetiche, quelle che conosciamo meglio e quelle in ombra.
    descrive processi fisiologici, Corporei: l’oceano di latte da cui estrarre l’Amrita (e tutto l’esistente) è nella testa, la volta celeste sotto la calotta cranica.
    serve un perno sicuro, la percezione di un centro che è il nostro monte Mandara sostenuto dal carapace di Kurma, la tartaruga (la colonna vertebrale, il bacino, il pavimento pelvico).
    si tratta di sensazioni fisiche, del sistema endocrino, del sistema nervoso; le energie si sentono nel corpo.
    Vasuki va tirato fuori dal suo nascondiglio e guardato bene in faccia, per poterlo conoscere, avvolto intorno al monte.
    il veleno c’è, perché all’inizio di un cammino di trasformazione viene a galla il turbamento.
    se non ci fosse il miasma, Shiva (che per inciso è il mio preferito, il dio dello Yoga e della Danza, selvaggio e inossidabile al conformismo, uno che se ne va a spasso scalzo, coperto da una pelle di tigre, coi serpenti che lo avvolgono come gioielli e la luna tra i capelli…ogni dettaglio ha una simbologia precisa, una storia a sé) non potrebbe manifestarsi e respirare via il veleno.
    che lascia il suo indelebile marchio, segno di un passaggio di stato.
    glielo lascia nella gola, sede dell’espressione, da dove origina tutta la manifestazione che viene vocalizzata nell’esistenza.
    dopo il veleno, vengono i tesori.
    insieme al veleno, inizia la Vita.

    [la storia inizia qui]

  • il frullamento dell’oceano di latte – prima parte (il dio dalla gola blu)

    questo mito inizia con una promessa. una promessa fatta in tempi lontani, in cui, tanto per cambiare, i deva (dei) e gli asura (antidei) se le danno di santa ragione in una guerra infinita e sfinente: in palio c’è – nientepopodimenoché – il dominio sui tre mondi.  entrambi gli schieramenti sono ormai fiacchi e indeboliti, ma gli asura sono decisamente in vantaggio: i deva hanno un disperato bisogno dell’Amrita, il nettare dell’immortalità.
    infatti nella notte dei tempi gli dei non sono nemmeno ancora immortali. vivono molto, molto a lungo, è vero, ma la morte li prende sempre e soffrono di tutte le lacerazioni che la guerra prolungata lascia dietro di sé.
    il fatto è che l’Amrita se ne sta immersa nell’immenso Oceano di latte, l’oceano senza sponde di prima dell’inizio, dove tutto è contenuto: ogni cosa è lì, intimamente mescolata a tutte le altre che ancora devono venire ad esistenza.
    ma come si fa a tirar fuori, da quell’enorme marasma opaco, il prezioso nettare?
    essendo latte, si può frullare (per la precisione, zangolare), proprio come si farebbe per tirarci fuori il burro.
    bello.
    ma frullare un immenso oceano non è mica come zangolare un secchio di latte!
    “per riuscirci, alleatevi con gli asura”, consiglia Vishnu ai deva.
    questa è la promessa che da vita alla storia: i devapromettono agli asura, in cambio di collaborazione, di dividere con loro il prezioso nettare.
    una promessa pericolosa, difficile da mantenere.
    i deva borbottano tra loro su questa inedita cooperazione, ma ci si penserà dopo a come sistemare le cose, dopo, quando avranno la coppa dell’Amrita in mano.
    ora l’urgenza è tirarla fuori dall’Oceano.
    gli asura, sfiancati dalla guerra e sedotti dalla prospettiva di diventare invincibili, accettano subito di dividere fatiche e premio finale con gli avversari di sempre.
    l’impresa è immane.
    per costruire la più grossa zangola mai esistita decidono di utilizzare, come perno, il monte più alto dell’universo: il monte Mandara.
    non è roba da poco: deva e asura scavano le radici della montagna, per estirparla dal suo sito, ma scavare come matti non basta perché non riescono, nemmeno tutti insieme, a trasportarlo.
    il monte scivola, tentenna, cade, schiaccia e non si lascia trasportare. non ce la farebbero mai se l’enorme Garuda, l’aquila divina, non lo prendesse con i suoi artigli, portandolo sa solo al centro dell’Oceano.
    per fabbricare, però, una zangola non basta avere il perno adatto: serve anche una corda da avvolgere intorno al monte.
    qui entra in gioco Vasuki, il re dei serpenti, gigante quanto il monte Mandara, che sembra proprio fatto apposta per essere la fune del frullatore cosmico.
    i deva tengono la coda del serpente, gli asura la testa, e tirano a turno.
    oooh issa, oooh issa!
    la montagna  inizia a ruotare, prima piano ma, man mano che l’inerzia cede, sempre più in fretta…schiuma, ondate di latte,
    oooh issa, oooh issa!
    onde sempre più agitate, il vortice intorno al monte Mandara inizialmente è timido, ma via via diviene più profondo,
    oooh issa, oooh issa!
    tutti sudano faticano in modo inesprimibile.
    col progredire del lavoro, il fiato di Vasuki diventa caldo, poi più caldo, poi rovente, una fiatella da paura!
    gli asura, che proprio dalla testa lo tengono, maledicono l’ingenuità di essersi lasciati convincere dai deva che l’enorme testa di Vasuki fosse la parte più nobile, e quindi la più ambita, da maneggiare.
    il peggio, però, deve ancora venire: infatti il povero Vasuki, così stiracchiato tra testa e coda, inizia a sputare il suo terribile veleno e la prima cosa ad emergere dal frullamento dell’Oceano di latte è proprio il suo temibile miasma, che rischia di contaminare l’Oceano intero, distruggendo tutto il suo contenuto e avvelenando tutti, deva e asura compresi.
    e adesso?
    tutto è perduto?
    i deva chiedono a Shiva aiuto e protezione dato che, in quanto distruttore, è l’unico che possa salvare la situazione.
    il mestiere di una divinità è di ascoltare le preghiere e assecondare le richieste che le vengono rivolte e Shiva, che sa fare il suo mestiere, usa l’unico modo possibile per esaudire la supplica: si respira da solo tutto il veleno, trattenendolo in gola. 
    non rimane totalmente incolume, però, Shiva.
    assorbire il miasma perché il mondo possa esistere gli lascia un segno indelebile, e la sua gola diventa, per sempre, blu.
    ma i guai, si sa, non arrivano mai da soli.
    nemmeno il tempo per tirare un sospiro di sollievo (tutti meno Shiva), e ci si accorge con terrore che il monte Mandara sta inesorabilmente affondando…

    [continua]

  • la nascita di Durga, ovvero dell’integrità

    Ci sono concetti semplici, banali, facili facili, ma ogni tanto li voglio onorare richiamandoli, perché sono anche fondamentali.
    Per come la vedo io (per fortuna non sono sola!), ciascun individuo è un insieme complesso e organico di energie.
    Spesso le qualità energetiche che ci abitano sono complementari (attenzione, non opposte, non in lotta, perché sennò ci si pensa a pezzi, frantumati, disintegrati, e questo genera sofferenza).
    Ad esempio ciascuno ha dentro di sé, e non tanto per dire, qualità energetiche Maschili e Femminili.
    Il che è estremamente diverso dall’equazione, così radicata, che uomo = Maschile e donna =Femminile.
    Intellettualmente ci arriviamo quasi tutti, magari dopo una perplessità iniziale, ma è necessario sentirlo nelle viscere come verità incarnata, sennò si vive costantemente negando una parte di noi stessi e in lotta col mondo circostante.
    Basterebbe, ogni tanto, ricordarsi che arriviamo tutti da un ovulo e uno spermatozoo, perché le qualità cui si fa riferimento qui sono quelle lì, i primordiali.
    Nell’incontro col mito che narra la nascita di Durga e della sua lotta col demone Mahisasura, è bene tener lo presente.
    [per la cronaca, le storie indiane sono un intrico stretto, si annodano le une con le altre in disegni complessi e fitti come una selva.
    L’inizio di un mito si trova nel fondo di un altro mito, la fine si trova nel mezzo di altre storie.
    E’ un bellissimo fiume, enorme, inarrestabile, colorato e denso di personaggi e vicende.
    Raccontare una storia indiana costringe a scegliere un momento in cui farla iniziare…]
    Inizia tutto con un demone particolare, figlio di una bufala e di un altro demone, il demone/bufalo Mahisasura.
    Lo dico subito: a me, Mahisasura è simpatico.
    Nelle storie indiane raramente si percepisce una spaccatura buoni-cattivi netta, è difficile identificarsi soltanto con la parte luminosa, lasciando ad altri quella oscura. E a me lui fa un po’ tenerezza.
    Il demone/bufalo ha tutte le sue ottime ragioni per essere arrabbiato con le divinità, ma questa è un’altra storia; noi, qui, lo troviamo già furioso e pronto per una vendetta-tremenda-vendetta.
    Mahisasura ha meditato seriamente per lunghissimi anni, e alla fine Brahma, il dio dell’inizio, gli è apparso, compiacendosi per il suo impegno e concedendogli la realizzazione di un desiderio.
    [infatti la divinità fa sempre il suo mestiere: esaudisce i desideri di chi la prega, sia uomo, demone, animale o un’altra divinità meno potente. Non può fare altro, è il suo compito…anche questa storia ci esorta a fare attenzione a ciò che desideriamo!]
    Mahisasura chiede il dono dell’immortalità.
    Fatto sta che si tratta dell’unica cosa che nessuno può proprio concedergli, infatti le stesse divinità hanno dovuto lottare duramente per conquistarla (ma, anche questa, è un’altra storia).
    Brahma glielo spiega, e Mahisasura corregge il tiro: “chiedo di essere invincibile per tutti i demoni, gli uomini e gli dèi”.
    Me le immagino, le facce di Brahma, che nell’iconografia tradizionale ne ha quattro (anche se, all’inizio dei tempi, ne aveva cinque e per una faccenda di gelosia ne perde una, ma questa è un’altra storia ancora), nell’ascoltare la richiesta del demone/bufalo.
    Avrà previsto in che razza di guaio stavano per cacciarsi i tre mondi?
    Dopotutto, però, un desiderio da esaudire è pur sempre un desiderio da esaudire…
    E Brahma non può fare altro che il suo mestiere: concedere.
    Da quel momento in poi la situazione degenera.
    Mahisasura conquista tutti i territori degli uomini, e i suoi eserciti giorno dopo giorno diventano più forti, spaventosi e coloro che combattono sotto i suoi vessilli più numerosi.
    Conquista anche tutti i regni del mondo dei demoni.
    Quando le divinità vedono le sue orde avvicinarsi al proprio mondo, la paura serpeggia tra loro.
    Chi mai potrà fermare il declino dell’universo?
    Si riuniscono in consiglio.
    Le tre divinità principali, Shiva, Visnu e Brahma (che nelle lotte  tra dèi e demoni stanno un pochino sopra le parti, e solo in casi estremi intervengono a supporto dei deva), sono sempre accompagnate dalle loro controparti femminili: Uma/Parvati/Kali per Shiva, Lakshmi per Visnu, Sarasvati per Brahma.
    Nel bel mezzo della riunione, le tre Dee si uniscono, e si concentrano, emanando la loro quintessenza, e creano un’altra Dea: una creatura incantevole, favolosa.
    Così nasce Durga: bellissima, sorridente, ingioiellata, con una coiffeure perfetta, i ricci ordinati e lo sguardo dolce e fermo.
    Incantati da tanto splendore e capendo l’antifona, tutte le altre divinità le regalano ciascuno la propria arma: Shiva il tridente, Visnu il chakra (il disco da guerra, una specie di freesbee micidiale), Indra il fulmine e via via armeggiando.
    Alla fine Durga ha qualche decina di braccia (trentatré!), ogni arto armato di un’arma divina.
    L’equipaggiamento non è completo senza un veicolo che la trasporti: e cavalca un leone, Durga.
    Un felino spaventoso, enorme, che con un ruggito scombussola la terra e il cui passo fa cadere le montagne.
    La Dea parte, sola sul suo leone, per la battaglia.
    Ci mette un battito di ciglia per sgominare gli eserciti immensi e le orde di demoni di Mahishasura.
    E quando lui la vede arrivare, probabilmente capisce da subito l’errore fondamentale commesso quando ha espresso il suo desiderio di invulnerabilità presso Brahma; ormai è tardi, e non gli resta che combattere.
    Nella lotta, Durga è impassibile, non le si scompone nemmeno un ricciolo dell’acconciatura.
    Il demone/bufalo cambia continuamente forma, da quella umana a quella di bufalo, finché Durga si  spazientisce e lo inchioda proprio col tridente di Shiva, esattamente nel momento del passaggio da una forma all’altra.
    Mahisasura è distrutto, i suoi eserciti sconfitti, e la pace torna a regnare nei tre mondi.
    Mi ha spesso stupito che alcuni uomini, all’udire questo racconto, lo abbiano interpretato come “la distruzione del Maschile”.
    Certo, identificarsi con Durga è facile per le donne, identificarsi con Mahishasura lo è per gli uomini.
    Un po’ troppo facile. E se si superasse l’apparenza?
    Mahishasura nel chiedere di non essere sconfitto né da dei, demoni o uomini, ha tralasciato il Femminile: non lo conosce, quindi non lo considera. Ed è la mancata integrazione di questa qualità energetica a perderlo.
    Ecco, nelle nostre confusioni personali facciamo la fine di Mahisasura quando non consideriamo, perché non le conosciamo, alcune parti di noi.
    Quindi no, per me non si tratta di una storia che narra la distruzione del Maschile.
    E’ un monito, per tutti coloro che hanno la pazienza di ascoltare i miti e di ascoltare se stessi, a non fare lo stesso errore di Mahishasura.
    Il demone/bufalo mi è simpatico, l’ho detto subito; forse perché mi ricorda Asterione, il Minotauro richiuso nel labirinto di Minosse, anche lui mezzo sangue, figlio di una regina e di un toro, anche lui sconfitto grazie a una dea, Arianna (beh, lei diventerà déa solo dopo essere scappata da Creta, ma anche questa è un’altra storia).
    Mi è simpatico perché fa un sacco di fatica per ottenere la realizzazione di un desiderio ed è grazie al suo scivolone che la dea Durga ha l’occasione di nascere.

    In fondo sono i nostri momenti di crisi a portare a galla le parti inaspettate, numinose, che ci abitano.

  • 7 consigli per insegnare Yoga in una città di provincia e rimanere (forse) sani di mente – ultima parte

    5. NON LASCIARE IL TUO LAVORO PER INSEGNARE YOGA
    Ok, detto da me suona “fai quello che dico ma non fare quel che faccio”, un bel contrasto con tutto quello che ho scritto finora.
    Guadagno meno, rischio molto di più e lavoro sempre, eppure sono decisamente più felice.
    Ma devo essere pazza, l’ho già detto.
    Quindi no, non lasciare il lavoro per insegnare Yoga (oltretutto di questi tempi sono i lavori a lasciare le persone, e non il contrario).
    Insegnare Yoga affiancandolo a un altro mestiere non ti renderà meno efficace o meno felice, però potrebbe davvero renderti meno stressato/a!

    Guardiamo in faccia la realtà: fare l’insegnante di Yoga (sempre se non hai le spalle coperte  altrimenti) può essere duro.
    Ci vuole un sacco di pazienza e di resistenza, fisica e mentale.
    E’ difficile guadagnare non dico molto, ma anche solo abbastanza, insegnando Yoga.
    Potrebbe esserci competizione: sai gestirla in modo costruttivo?
    La cosa buona è sapere che i tuoi allievi ti somigliano (vedi punto 2!), e finché ci sarà questa vibrazione in comune, allora praticherete insieme. 
    La Vita ci cambia in continuazione, tutti, e accettando che qualcuno cambi (città, disciplina, insegnante ecc.), è accogliere la Vita, e togliersi dalla competizione e dallo stress.
    Lo Yoga è l’esperienza che fai: trova il tuo modo di insegnare, che poi è il tuo modo di essere. 
    Per qualcuno può essere faticoso riuscirci, ma vale sempre la pena di trovare la propria voce, la propria autenticità.

    6. INSEGNA, INSEGNA, INSEGNA
    Insegnando si impara.
    Si impara  a raggiungere tutti, ad essere efficaci e gioiosi.
    Soprattutto, prima di insegnare ciò che si sa, si insegna ciò che si è: prima si crea la relazione con gli altri, poi si potranno scambiare energie, insegnamenti, tecniche e via discorrendo.
    Accogliendo gli allievi, si impara ad accogliere se stessi.
    Da ciascuno che ti raggiunge per praticare insieme, si impara.
    Con umiltà e coraggio, si insegna e si impara.
    Si trovano gemme preziose, negli altri e in se stessi.
    questo ci porta al prossimo punto…

    7. SII GRATA/O
    Per l’insegnamento scambiato.
    Per le persone.
    Perché insieme si cresce.
    Per lo Yoga, per la Vita.
    Questo è il punto più importante: l’ho conservato per ultimo.

    [prima parte e seconda parte]
  • 7 consigli per insegnare Yoga in una città di provincia e rimanere (forse) sani di mente – parte seconda

    2. AMA I TUOI ALLIEVI (ti somigliano)          
    Lavoravo a tempo pieno in una grande azienda; mi alzavo prestissimo per praticare, scappavo dalle riunioni per insegnare ai miei corsi Yoga e spesso finivo di lavorare ai progetti aziendali a notte fonda, dopo essere rientrata dalle lezioni.
    Chi me lo faceva fare?

    Mi era chiarissimo, e ora lo è ancora di più, che lo facevo e lo faccio, per amore; adoro le “mie persone”, adoro stare nei loro universi, meravigliosi e sorprendenti, adoro studiare e insegnare Yoga.
    Sennò non potrei farlo.
    Amare le tue persone significa ascoltarle, dare valore al fatto che si organizzano (a volte pesantemente!) per venire ai tuoi corsi, seguirti ai seminari, praticare insieme a te.
    Significa, se insegni Yoga, capire al di là delle esplicitazioni, perché ogni giorno siamo differenti, comprendere di cosa c’è bisogno e cosa puoi fare per raggiungerli.
    Significa essere in grado di raggiungere tutti, o almeno provarci con sincerità totale.
    Significa conoscere il Corpo, conoscerne l’anatomia e la fisiologia, i canali energetici, rispettarne l’Armonia nella sequenza di asana, respirazione, mantra, concentrazioni.
    Di fatto, significa praticare molto, moltissimo per conto proprio, lavorare costantemente su di sé; e questo ci porta direttamente al prossimo punto…

    3. PRATICA, PRATICA, PRATICA
    “Ma anche tu, che insegni, poi per conto tuo pratichi Yoga?”
    Quesito meditabondo, posto da qualcuno che a sua volta insegna (filosofia all’università, per la precisione).
    “Ovvio. Cosa insegno, sennò?”.
    Annuisce con aria pensierosa,  “Eh, me lo ripeto spesso anche io”.
    Immagino valga per tutti coloro che insegnano, qualsiasi sia la materia.
    Pratica.
    Pratica, sennò cosa vuoi insegnare?
    Anche se hai molte classi, quello che fai non sostituisce la tua pratica personale; se si insegna, non lo si fa per se stessi:  si è a servizio degli allievi (vedi punto precedente!)
    E’ la ricerca personaleche ti porta ad avere qualcosa da condividere con le persone che guidi.
    E’ la pratica personaleche ti ha portato, bene o male, ad insegnare Yoga, giusto?
    Allora non lasciarla mai.

    4. SII CURIOSA/O (e coreaggiosa/o, a volte)
    Non basta leggere gli stessi libri e giornali di Yoga che leggono tutti gli insegnanti di Yoga che conosci, e andare agli stessi seminari e festival di Yoga a cui si iscrivono tutti gli altri insegnanti di Yoga, di cui hai sentito parlare da altri insegnanti di Yoga o che hai visto pubblicizzati nei giornali che si occupano di Yoga.
    Pratica.
    Cerca.
    E nascerà la curiosità di seguire strade/insegnamenti/discipline che potrebbero sembrare distanti dal tuo mondo e invece non lo saranno; sii curiosa/o non solo di ciò che ha l’etichetta “Yoga”, ma di tutto ciò che risuonerà in te.
    Anche quando sarai l’unica insegnante Yoga nella stanza.
    Perché quello che ti muove, che ti ispira, diventa Yoga se tu sei Yoga.
    Farà parte del tuo bagaglio, della tua ricerca, della tua Vita.
  • 7 consigli per insegnare Yoga in una città di provincia e rimanere (forse) sani di mente – parte prima

    “Voglio fare quello che hai fatto tu”- ha gli occhi lucidi di entusiasmo – “voglio una vita come la tua”.

    La guardo, e il mio sguardo implora pietà.
    Lei, implacabile, continua: – “Voglio insegnare Yoga, e vivere insegnando Yoga”.
    Lasciarmi senza parole non è facile, ma lei c’è riuscita.
    Nessuno vorrebbe davvero una vita come quella di qualcun altro, giusto?!?

    “Wow! bellissimo!” è la prima reazione di chi scopre che insegno Yoga.
    Un attimo di esitazione e arriva l’immancabile: – “Sì, ma…qual è il tuo lavoro vero?”.
    Frequentemente seguito da: – “E quante ore lavori, a settimana?”
    La verità è che studio, pratico, insegno moltissimo ma non lo penso come “lavoro”, ho uno stile di vita monacale eppure mi sveglio con un canto nel cuore, pensando “che fortuna, insegno Yoga! che fortuna, aver incontrato lo Yoga!”.
    Devo essere pazza.

    Negli ultimi tempi mi è spesso capitato che persone che condividevano la pratica con me (un modo per dire “allievi”; ho un problema con quella parola. “Allievo” implica che ci sia un’insegnante. Ma chi insegna e chi impara da chi? Beh, questo è uno dei punti di questi post) mi abbiano comunicato di voler seguire un corso insegnanti Yoga, cercando consigli per orientarsi nella ridda di offerte più o meno variopinte che popolano il web.
    Ancora più frequentemente succede che aspiranti insegnanti Yoga che non conosco affatto mi scrivano chiedendo suggerimenti, incoraggiamento, lumi…
    Deve essere una pazzia contagiosa.

    Insegno Yoga da circa tredici anni, e che qualcuno chieda/condivida un’intenzione di vita con me, è un onore che mi commuove.  
    Sia detto questo.
    Ma non è tutto solo rose, fiori e Chakra.
    Sia detto anche questo.
    E in ogni caso ci sono cose per cui nessun corso ti preparerà: quindi, ecco la mia storia.

    1. QUALE CORSO INSEGNANTI?
    Lo confesso, ho frequentato un corso insegnanti.
    E sono grata ogni giorno che passa alla mia Maestra per avermi accolta, benché fossi un’universitaria squattrinata e non dessi alcuna garanzia di cambiare idea a metà corso, tantomeno di riuscire a pagare le rate di iscrizione (diversamente dai molti altri aspiranti i cui cv stavano a pile su una scrivania, rimasti esclusi da quella tornata di papabili frequentanti della sua scuola). 
    Le sono grata per aver condiviso il suo percorso con grande generosità e per avermi sempre incoraggiata ad essere creativa e autentica, nella pratica dello Yoga e nella Vita.
    Ma non avevo alcuna intenzione di insegnare Yoga, quando l’ho iniziato: volevo solo “di più” e “più approfondito” di quella cosa lì, che per me era lo Yoga, e fare il suo corso insegnanti mi sembrava un buon modo per averla; grazieaddio, lei fu dello stesso avviso.
    Per la cronaca, si tratta di una scuola quadriennale. 
    Ci sono corsi insegnanti di un mese, di due anni. 
    Pochi arrivano a quattro, in effetti.
    Se avessi cercato una scuola al solo scopo di procurarmi un qualsiasi diploma di insegnante Yoga, ne avrei scelta una più breve e vicina, naturalmente.

    La motivazione personale è la prima cosa importante: cerca di capire se ti stai buttando in un corso insegnanti solo perché ti ha convinto una pubblicità.
    Soprattutto se si tratta di un corso che dura anni, perché la spinta che ti porta a impiegare i tuoi weekend, le tue energie e il tuo denaro può scemare, se non hai ben chiaro perché lo stai facendo.
    A me è capitato di innamorarmi del Tantra, e questo ha cambiato la mia Vita; ci sono persone che attraversano oceani e continenti perché sentono la spinta fondamentale verso un determinato insegnante/stile/scuola (degli stili di Yoga non si parlerà, in questi post, è bene avvisare).
    Ci sono persone che comprendono, altrettanto visceralmente, di volere un diploma e basta: se la molla è questa, vai nella scuola sotto casa, impara quello che devi e prendi il diploma che ti serve.
    Ascoltarsi dalle viscere e seguire il proprio istinto con lucidità e chiarezza è Yoga, anche quando si cerca di scegliere il corso insegnanti più adatto a noi.
    Quello che conta davvero è il proprio cammino personale.

  • quelli che…”Il Fiume”

    se un’esperienza non ti cambia la vita, almeno un po’, è ancora un’esperienza?
    se non fa venire a galla percezioni, sensazioni, porzioni di sé poco conosciute o addirittura inesplorate, se non aiuta a scoprirci diversi, se non ci trasforma, che esperienza è? 

    chi decide di dedicare il tempo di una mattinata domenicale praticando Yoga ad un seminario anziché, che so, poltrire a letto o  farsi una bella gita in montagna,   segue, se non proprio un’urgenza, almeno una curiosità: esplorarsi.

    ecco i feedback dei partecipanti al seminario “Il Fiume” a Padova e a Torino; come sempre, anche io partecipo mettendo la mia curiosità di me stessa e degli universi altrui, e le mie considerazioni sono mescolate alla gratitudine indicibile per coloro che, con la propria disponibilità a mettersi in gioco, mi permettono quest’esperienza.

    “per alcuni giorni mi sono sentito completamente mobile, dentro… una sensazione bellissima che ancora ho, mi basta ripensarci e mi sento fluido”.


    qualcosa è cambiato fisicamente dentro di me, e non me lo ancora ben spiegare, e non lo riesco ancora bene a capire. 
    é come se l’involucro avesse mantenuto la sua rigidità, le sue zone contratte e più o meno dolenti ed indolenzite, ma qualcosa dentro si fosse fatto più fluido. nel momento in cui vado a fare stiramenti, allungamenti, è come se sentissi che questo fluire si realizza in un maggiore allungamento e se contatto questo fluire, l’allungamento è così piacevole, interessante, coinvolgente, più intenso. 
    mi sento più a contatto e dentro un fluire come se io fossi nel fiume e il fiume fosse dentro di meun po’ questo sentire rispecchia quello che sto vivendo adesso, con la consapevolezza che il fiume, con i suoi tempi, trasformandosi o rompendo gli argini, trova sempre la sua strada.

    “con il senno di poi credo di aver sentito una pace…[…] forse il fluire è qualcosa di diverso, probabilmente sto “fluendo” adesso ma non me ne rendo conto. 
    o forse il fluire è modellare (io sono questo, tu sei un’altra cosa, nessuno annulla nessuno ma si fluisce insieme) , meno rigidità, rispetto dei confini, apprezzare ma non sempre i difetti. non straripare ma nemmeno infossarsi in una diga. 
    accettare di essere troppo a volte, e a volte troppo poco.”

    ho sorriso tutto il tempo e a volte anche riso ma non per mancanza di rispetto per il tuo lavoro e quello del gruppo ma perché le mie emozioni erano veramente incontenibili … ero stranamente euforica!!!!…mi sono lasciata trasportare come una foglia fin a quando non sono diventata io stessa il fiume…ho sentito l’acqua cristallina scorrere dentro di me e io dentro di lei!!!”

    “mi innervosisco sempre quando mi distraggo. tendo a colpevolizzare rumori, voci o suoni esterni, ma mi sono invece accorta che, quando resto davvero concentrata, niente può togliermi dall’alveo del mio fiume.”

    “sono conosciuta per una persona molto aperta e molte persone si confidano facilmente con me, ma mi sono resa conto che invece io non faccio entrare nessuno nel mio mondo e nonostante io conosca “un mondo di persone”, ma pochissime conoscono me e a volte mi sento infinitamente sola.”

    “ho respirato da subito un senso di familiarità che mi ha molto rasserenata”

    “durante quelle 3 ore ho ripercorso emotivamente tutti gli stati d’animo che avevo percorso da quando ci siamo incontrate fino a quel momento, sia i più brutti che i più belli.
    però in tutto ciò le mie emozioni erano chiare, limpide, oserei dire pure. 
    non c’era confusione, c’era solo un fluire di tutte queste emozioni forti, positive e negative, che avevano il loro posto dentro di me e semplicemente scorrevano, come doveva essere. 
    e questo l’ho ricollegato anche agli effetti dello Specchio, alla riflessione sulla mia identità.
    ovviamente il mio stato emotivo è parte di me e le mie reazioni emotive possono aiutarmi a comprendere meglio chi sono. ”

    “non è semplice trovare la giusta concentrazione in mezzo ad un gruppo di persone estranee per quanto tutte certamente animate da spirito costruttivo e partecipativo (il fiume che unisce…), eppure ho nitidamente sperimentato, anche se solo in modo “quantico” e certo per miei limiti personali, attimi di grande emozione e luminosa serenità e, credimi, almeno un paio di groppi liberatori mi sono scesi giù per la gola.”

    “lo scorrere del tempo trascorso insieme è stato talmente piacevole che l’ho vissuto con leggerezza ed armonia, due sensazioni che ancora provo.
    cammino in maniera più eretta…e se mi accorgo di essere pesante muovo tutto l’”ambaradan” ed ecco fatto, la testa ritorna al suo posto e “avanti col sole in fronte!””

    “ho scoperto di avere due spalle!

    “sono stato fiume e ho percepito molto bene il terreno, le rocce, gli argini…ho sentito il limite come opportunità e ho apprezzato la frenata della mia acqua al contatto con gli altri elementi. ho scoperto le variazioni del flusso e le ho accolte con naturalezza”

    “tornando a casa mi sono accorta che cantavo, in auto, da sola
    cantavo a squarciagola; erano anni che non cantavo”

    ora ho maggiore coscienza di ciò che scorre dentro di me, sia nel corpo fisico, sia nella sfera emotiva. mi sono sentita parte del mondo, per me meraviglioso, dei fiumi.


    questa è stata una grande rivelazione: dalle immagini che si sono succedute nelle visualizzazioni il fatto che è il mare e non la montagna il posto che più mi attira per la mia vecchiaia, so camminare sugli scogli, non sulle mulattiere di montagna…”


    “e con questa capacità di raccontare le difficili storie indiane con ironia e semplicità, rendendole comprensibili anche a me occidentale, poco incline ad abbracciare qualsiasi religiosità troppo fideistica e dogmatica, ma capace di cogliere l’essenziale della spiritualità…


    il bello della meditazione è quello che ti rimane una volta finita “l’esercitazione” del momento, per poterla portare nella vita extra spirituale di tutti i giorni.

    il giorno stesso sentivo dentro di me un fluire di energia positiva, i pensieri li osservavo ma non mi condizionavano, ero neutro.
    in questi miei ultimi 3 anni di ricerca dell’io spirituale mi è capitato di affrontare sistemi meditativi che non ho sentito miei, o che comunque non mi hanno dato quella sensazione di leggerezza e libertà che ho provato durante “il Fiume”: quando raggiungo questo stato sento che non solo mi fa bene, ma che mi carica. fosse così tutte le volte che medito!!!!
    l’importante è far scorrere tutte le emozioni come se fossero un fiume in movimento.

    navigare quel Fiume e’ stata un’esperienza strainteressante!

    fluivano emozioni cosi’ forti che ad un certo punto mi sono sentita soffocare! (ma non e’ stata una brutta sensazione!)
    sicuramente si sono liberate tensioni, infatti senza sforzo alcuno sono arrivata a posizioni che non avevo mai raggiunto, nemmeno con il corpo più allenato quando praticavo power yoga.
    inoltre, lo “zainetto” maledettamente pesante che mi porto perennemente sulle spalle, uscita di li’ era diventato piacevolmente leggero, quasi impercettibile!
    ho vissuto almeno un paio di giorni immersa in un totale stato di beatitudine con me stessa e con il resto del mondo, con una calma interiore che per me non è consuetudine. credimi, questa cosa l’ho sperimentata anche durante un’accesa (solo da parte sua) discussione con il mio capo.
    credevo quasi di essere diventata un piccolo Buddha!!!

  • Dottor Shanti e il mio CittaVrtti

    Racconto d’India di Francesco Castellano, Yogin, giocoliere, arrampicatore e molto altro. Le giravolte della Vita hanno stranamente – ma nemmeno troppo – legato il suo viaggio ad un altro cammino indiano, il mio, avvenuto un anno prima (almeno così dicono i calendari…). Grazie mille, Francesco!
    ———-
    Dr.Shanti– Che ci fai qui in India?

    Citta Vrtti- Sempre bello cominciare con una domanda, non trovi?
    D- (ci pensa un attimo)Perchè secondo te?
    C- Ora però nei stai facendo troppe…
    D- Rispondi a quella che preferisci
    C– Nella domanda c’è la libertà del possibile, c’è il divenire, l’aspettativa, il desiderio, quindi la curiosità.. nella risposta c’è definizione e troppe definizioni annoiano la Verità… non sarebbe bello rispondere sempre con altre domande?
    D– (di nuovo pausetta) Una buona risposta ha bisogno di un buon ascolto… forse basterebbe aspettare un attimo in più, anche solo il tempo di un buon respiro… o no?
    C– (respiro) Come nel Corano: c’è scritto qualcosa come “se quello che dici non è più nobile e meraviglioso del suono del silenzio, allora taci”.
    D– (pausa)
    C– (pausa)
    D– (pausa)
    C– (pausa)
    così per 89  pause poi
    D– Hai letto il Corano?
    C– No, l’ho sentito in un film.
    D– (pausa)
    C– (pausa)
    cosi’ di nuovo per 101 volte…


    D– Si, ma che ci fai qui in India?
    M– Possiamo dire “Karnataka”? India è così grande e dispersivo… troppo.. troppo.. hai capito?
    D– No, ma va bene lo stesso: solo inizia a rispondere che se no perdiamo il filo…
    C– E cosa c’e’ di sbagliato nel perdere il filo?
    D– (pausa) vabbè: che cosa ci fai qui i Karnataka?
    M– (respiro lungo e goduto) per prima cosa..
    D– (Avvicinandosi un po’) Siiii
    M– … secondo me..
    D– Siii
    C– ..vince “Cosa” e io mi sa che ho perso.
    D– (attonito e silenzioso)
    C– ..come il filo.
    D– eh?
    C– Secondo me, per prima cosa, vince Cosa e io perdo…
    Il Dr.Shanti non dice più nulla chiude gli occhi e inizia a respirare tranquillo. Poi le braccia come due serpenti in attacco, sferrano le mani verso il mio Citta Vrtti  che rimane paralizzato. I pollici del dottore pressano su Anahata e Aj’na chakra e intorno a quei due centri inizia a colorarsi tutto   con tonalità verde bosco di Faggi e Castagni. Il colore si espande e ricopre man mano tutto il corpo…

    …dopo un po’…  
    D– Che ci fai qui in India?
    C– Digiuni, mezzi digiuni, yoga, ozio, costellazioni, clacson, fuochi sulla spiaggia, sorrisi, quel movimento della testa, Sab kuchh milega, cocchi da bere, mucche, lune piene, charas, nepalese, falo’ d’immondizia, odori, profumi o puzze che siano, bere da una bottiglia di plastica, montagnette di colori al mercato, notti in bianco, lune piene, luna un po’ storta, cacarella, guida nell’altro senso, giocoleria, coconutlassi, bananalassi, banglassi, tuk tuk, sarebbe bello fare uno progettospettacolo sulla spazzatura, tali, dal fry, masala dosa, camion agghindati a tempietti, scimmie…
    D– …un verbo. (e lascia la digitopressione sui due chakra)
    C– Masticare.
    D– Ovvero?
    C– In viaggio devo masticare bene il cibo fino a renderlo un poltiglione, un succo triturato da bere e da far conoscere al mio stomaco in una informa amichevole, più facile da digerire… e lo stesso per i nuovi incontri, nel gusto delle nuove scoperte, di tutti questi colori, questi rumori, i ritmi, questo fumo così saporito, nella fortuna casuale (o forse no) di conoscere Maestri..
    D– Maestri?
    C– Qualcuno che ha imparato a muoversi nel reale e ci sta comodo, leggero e sereno.. qualcuno che ha già dato un’occhiata in un buco di serratura interessante e lo racconta con la sua presenza, con l’agio delle sue azioni, i tratti del viso guadagnati con il sudore di certi viaggi, certi pensieri…
    D– Qualcuno di importante?
    C– Qualcuno o qualcosa: puo’ essere una frase di un libro, un’immagine, uno spettacolo un film… a questo proposito consiglio vivamente di guardare “Harvey” con James Stewart e i cartoni animati “Surf’s Up” e  la serie “La leggenda di Aang, l’ultimo dominatore dell’aria” e “Le strane coincidenze della vita” e “Waking life” e uno spettacolo qualsiasi di Stephan Mottram e … 

    D– Hai già incontrato qualche maestro in questo viaggio?
    C– C’era questo personaggio a Gokarna che bastava guardarlo per raddrizzare un po’ più la schiena, tutte le sere andava a cercare un falo’, si sedeva e iniziava a meditare o che so io, comunque potevi vedere la sua colonna vertebrale allungarsi e animarsi come un cobra.. Poi ad Hampi c’era Vicoss, un ragazzetto indiano che mi ha insegnato che lo yoga degli indiani è dormire nel letto, infatti al mattino veniva a guardarci fare yoga e salutava l’arrivo del sole comodamente rilassato sul suo crash pad..
    D– Com’è stato ad Hampi?
    C– Un paradiso di granito, un colloquio con un elemento che mi e’ appartenuto cosi’ tanto in passato, la meraviglia di scoprire la memoria e l’intelligenza del corpo, delle dita e degli avambracci.. consumarmi di roccia, di fatica, combattere la gravità, fidarsi di chi ti fa sicura in quel momento, un tuo Amico per quel momento, visualizzare Anuman alla fine di ogni boulder, che li’ li chiamano “problems” perchè son enigmi da svelare..  se ne risolvi uno guadagni la dignità di ritornare un po’ più scimmia e un nuovo strato di pelle dura sull’ultima falange.. Quando poi finisci di arrHampicare senti e tocchi le cose meglio, più nel dettaglio, nel micro..
    D- ..E quando sei stato male?
    C– Vorrai dire quando siamo stati male, solo che tu sei scappato.
    D– Non son riuscito a stare.. scusa.
    C– Dopo il paradiso, l’inferno, direi, niente di più scontato ed equilibrato: dodici volte al cesso in una notte e al mattino cHrampi alla pancia da desiderare di morire, o piangere o vomitare o fa lo stesso basta che passi, basta tornare alla normalità… mediocre, perfetta normalità.
    D– Però non eri solo…
    C– Nel male acuto si’: sentivo le persone vicine, ma erano sfocate, c’era solo il male allo stomaco che mi faceva implodere accartocciato su me stesso… Steo però è sempre stato li’ a tenermi d’occhio e a dirmi di cercare di rilassarmi, poi Gaia e Sara mi han portato l’acqua calda per il pancino e poi poco per volta ho ricominciato a respirare normale.. ed è stato bellissimo. Come rinascere. (silenzio)
    D– Non vuoi aggiungere nient’altro?
    C– Rimarrai la prossima volta?
    D– Non te lo posso assicurare.
    (silenzio)
    D– Hai voglia di parlare di giocoleria?
    C– Ho sempre voglia diparlare di giocoleria.
    D– Perchè spesso la chiami Giocolosofia?
    C– Perchè è una conoscenza, è un viaggio fisico, ma anche mentale.. riguarda il tempo, lo spazio, l’equilibrio, l’accettazione, l’errore, l’armonia, l’elasticità, l’attenzione, il movimento continuo e inarrestabile che sta al principio di tutto…. e un sacco di altre robe, ma fondamentale è che si tratta di un gioco e quindi è anche divertente, spontaneo e selvaggio… (pausa) Hanno detto che la formula per definire il Lavoro è Forza per Spostamento… ma non hanno trovato ancora la formula per il gioco, perchè la potenza goduriosa che muove il Giocare è troppo libera e imprevedibile per essere imbrigliata…
    D– Però anche nel gioco ci son delle regole.
    C– La prima è: se non vuoi giocare, puoi non giocare; la seconda: se sei pronto ad affrontare le conseguenza puoi comunque disubbidire. Poi ogni sistema-gioco avrà le proprie regole, le proprie forme e cosi’ via.. Ma il punto è giocare tutto il resto è meno importante.
    D– Quali sono le regole della tua Giocolosofia.
    C– Divertirsi, respirare, cercare di rispettare la fluidità di un movimento continuo, non andare contro, ma accompagnare, usare meno Forza possibile, stare a vedere che succede… un po’ come nell’Aikido o nella Capoeira… un dialogo costante tra quello che propongo e quello che mi viene proposto, uno scambio per nuove scoperte.

    D– E lo Yoga?
    C– Anche lo yoga per me è un gioco, solo un po’ più egoistico, un dialogo con noi stessi sempre più nel profondo, nell’impercettibile, nel…
    D– Anche nello yoga ti diverti?
    C– La mia Maestra si chiama Beatrice e il suo è uno yoga beato: prima della meditazione dice sempre “visualizzate il vostro mezzo sorriso di Buddha”: è un’immagine che possiamo ripescare nella giornata o nel giorno prima, o puo’ essere fissa per tutte le volte… quando, spontaneamente nella visualizzazione di quel momento, ricordo o fantasia, ci verrà da sorridere, quello è il mezzo sorriso di Buddha. Non è magari divertimento, ma serenità, pace, tranquillità… profonda, come il respiro che dovrebbe scandire il tempo di tutta la pratica…
    D– Come dev’essere uno spettacolo?
    C– Dev’essere un elogio alla poesia, alla creatività e dovrebbessere Etico. O molto molto divertente, ma anche in quel caso è etico… il punto è stare con lo spettatore, farlo giocare con le sue associazioni d’idee, le immagini prese da chissà che passato, le emozioni che si rimescolano da dentro con le nuove suggestioni che proponiamo noi, con il nostro lavoro.
    D– vorrai dire gioco?
    C– Volevo dire gioco: Quando salutiamo qualcuno che non se lo aspetta o compiamo una gentilezza gratuita, quel qualcuno restituirà la gentilezza a sua volta, è contagioso… alla fine dello spettacolo lo spettatore dovrebbe avere una sensazione simile… … se no è una masturbazione teatrale… (silenzio)  
    D– Puoi riassumere tutto sto pippone con una frase tua?
    C– No, ma per fortuna ci ha pensato ciccio Nietzsche che dice “Maturità dell’uomo significa ritrovare la serietà che da fanciulli mettevamo nel giocare” o qualcosa del genere…
    D– E’ il caso di dire ooOOOOOOOMMMMMMMMmmmmmmm…
    C– …oooOOMMMMMMMMMMMMmmmmmmmmmmm
    dopo 12 minuti…
    D– OOOOMMMMMMMMmmmmmmmmmmmmmmmm
    C– OOOOMMMMMMMmmmmmmmmm….
    D– Bene, come chiudiamo?
    C– Con una domanda?

    D– Perchè no?

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