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  • le avventure della Terra e del Cinghiale – ovvero Prithvi e la Stabilità

    le avventure della Terra e del Cinghiale – ovvero Prithvi e la Stabilità

    Prithvi - mitologia indiana - Yoga e Mitologia

    In questa storia indiana ci sono rapimenti, discese in fondo all’Oceano di prima dell’inizio  salvataggi, lotte titaniche; in questa storia c’è, anche, una stabilità acquisita…
    È mai capitato a qualcun’altro? 
    Toccare il fondo’ (che per ciascuno ha una sfumatura differente), risalire, trovando stabilità, una saggezza diversa, una visione allargata, una pazienza rinnovata?
    Ecco, la storia è questa.

    Non è un caso se i miti indiani, spesso, iniziano con un Asura = demone: infatti gli Asura non sono mica, banalmente, brutti-malvagi-cattivi (o, almeno, non sempre, come saremmo invece portati a pensare quando traduciamo il termine con ‘demoni’). 
    Essi sono le qualità energetiche che stanno nell’ombra, al buio: e dunque quelle sconosciute
    Il primordiale timore del buio – anche se fingiamo, dignitosamente, di averlo superato fin dai tempi lontani dell’infanzia – è legato al fatto che ignoriamo cosa ci sia lì, nascosto nelle tenebre. 
    Magari c’è qualcosa  di sorprendente, potrebbe trattarsi di un incontro utile alla nostra crescita. 
    Per questo mi piace che le storie inizino con un Asura: iniziano con una sorpresa.
    Questa storia non fa eccezione.

    L’Asura si chiama Hiranyaksha, che significa Occhio-d’-Oro; la madre di Occhio-d’Oro è Diti, la Madre Cosmica, mentre il padre è Kashyapa, il primo dei Rsi, i veggenti: il capostipite, così antico che, a quanto pare, da lui discendono i Deva (Dei), gli Asura (anti-dei, ombre), i Naga e l’umanità tutta.


    Insomma Dei e Asura sono tutti figli dello stesso padre, e sono in costante lotta tra loro. Come nel simbolo del Tao, ombre e luci danzano, e dalla loro danza emergono energie diverse, colori differenti…nessuna delle due può prevalere definitivamente sull’altra, altrimenti la Vita, che è movimento, è vibrazione, avrebbe termine…

    Com’è possibile che il figlio di una coppia simile sia un Asura, oltretutto parecchio malvagio?
    Pare che, in un’incarnazione precedente, Occhio-d’Oro e il suo fratello gemello (Asura quanto lui) fossero i guardiani della dimora celestiale di Visnu, il conservatore della Vita (apparirà tra poco come Cinghiale Cosmico, in questa  storia); e quando alcuni veggenti si presentarono, chiedendo di incontrare Visnu, loro come custodi della tranquillità di Visnu glielo impedirono [come farebbe qualsiasi brava guardia del corpo degna del proprio incarico, eh!]. 
    I veggenti non la  presero bene: infatti, li maledirono.
    Dovete sapere che le maledizioni dei veggenti facevano paura a tutti perché erano implacabili
    Stavolta, ai due guardiani tocca di rinascere Asura
    Comunque sia, da Diti, la Madre Cosmica, nascono Hyranyakasha, Occhio-d’-Oro, e suo fratello, Vestito-d’-Oro.
    Mi ha colpito, questo dettaglio dell’occhio d’oro.
    Gli occhi d’oro sono soprannaturali, evocano super poteri
    Un modo diverso di guardare il mondo.
    Nella mitologia classica pare che la maga Circe, quella, per intenderci, che trasformò i compagni di viaggio di Ulisse in maiali, avesse occhi d’oro (e anche in quella vicenda ci sono superpoteri, occhi d’oro e maiali, cioè una versione più domestica e ben educata del cinghiale che sta per arrivare).
    È chiamato Occhio-d’-Oro pure un altro personaggio della mitologia indiana, Kubera, che è il custode dei tesori: pare infatti che, una volta, avesse affermato che il denaro può comprare tutto, così la Dea gli tolse un occhio, incitandolo a rimpiazzarlo. 
    E, lui, con cosa lo fece? 
    Esatto, si mise un occhio d’oro!. 
    Così uno dei suoi molti nomi è Ekaksipingala che vuol dire quello con l’occhio d’oro, o giallo.

    Tornando al ‘nostro’ Occhio-d’Oro, l’Asura, lui i superpoteri non li ha, non dall’esordio. 
    Ma sa bene come procurarseli: armato di incrollabile pazienza, decide infatti di praticare austerità rigidissime, dedicandole a Brahma, l’Iniziatore della Vita. Il dio, dopo anni e anni di preghiere, gli appare e gli concede la realizzazione di un desiderio.
    Infatti, come ben sappiamo, il mestiere del numinoso è, una volta invocato correttamente, di esaudire i desideri e rispondere alle preghiere. Anche se sei un Asura…
    Occhio-d’Oro chiede e ottiene di dominare l’intero mondo; in particolare ottiene che nessun animale elencato lì per lì, di fronte a Brahma, abbia mai il potere di ferirlo o ucciderlo. 
    Il fatto è che si dimentica di nominare un solo animale: indovinate quale?
    Infatti.

    Occhio-d’Oro inizia subito a creare scompiglio, saccheggiando ogni cosa di valore dalle creature del mondo, inclusi i testi sacri indiani. Sfida perfino a duello tutti i semidei, uno ad uno, ma nessuno di loro accetta. 
    Decide allora di trascinare Prithvi = la Terra, nel fondo dell’Oceano primordiale, e di tenerla prigioniera lì; ma, quando manca la Terra, cosa succede? 
    La Vita non riceve sostegno, si spegne, resta spazio solo per l’immobilità e la morte!
    Come sempre, quando la Vita stessa è in pericolo, quando l’universo è al punto di collasso, deve per forza intervenire Visnu, che perlappunto di mestiere fa il Conservatore della Vita: lui è quello che arriva e salva nelle situazioni più critiche.
    Stavolta prende la forma di un cinghiale, che era l’animale scordato da Occhio-d’Oro nel suo elenco: inizialmente, Varaha il Cinghiale esce dalle narici di Brahma (l’Iniziatore della Vita, e anche, in fondo di questa storia) come una piccola bestiolina delle dimensioni di un’insetto, ma inizia subito a crescere.  
    Diventa grande come un elefante, e cresce ancora, ancora, fino a diventare come una montagna, finché il suo corpo immenso occupa tutto lo spazio tra  la terra e il cielo.

    Cinghiale - Varaha: mitologia indiana - Yoga e Mitologia

    Il Cinghiale Varaha si tuffa nelle profondità dell’oceano, per salvare Prithvi
    Ovviamente incontra Occhio-d’Oro, che gli si para davanti e non ci pensa nemmeno di lasciare Prithvi libera; il loro combattimento dura mille anni, finché il Cinghiale, finalmente, distrugge  Occhiod’Oro. 
    Riporta Prithvi, la Terra, a galla: e le acque primordiali, mentre la Terra e il Cinghiale risalgono in superficie dalle profondità più oscure dell’oceano, vengono agitate da onde enormi, mulinelli, cascate…quando tutto si placa, il Cinghiale Varaha distende la Terra, Prithvi, ben bene, modellando montagne e continenti, in modo da renderla nuovamente abitabile.
    D’altronde ‘Prithvi’ significa ‘estesa’, ‘distesa’. 
    È il principio di fertilità, la fonte di ogni vegetazione, ed è la stabilità, e il sostegno degli esseri viventi.
    Lei è paziente come nessun altro, e porta sul petto il peso di tutto ciò che vive. 
    Il Cinghiale, di fatto, rappresenta la rinascita della Terra.

    Se siete arrivati fin qui, forse vi sarete accorti anche voi che questa storia ha qualcosa di noto, come quando ci presentano qualcuno che, con certezza, non conoscevamo prima, ma ci pare familiare…
    Se vi è capitato con anche con questo mito indiano (e non solo col cugino del vostro vicino di casa), potrebbe dipendere dal fatto che, nella mitologia classica occidentale, c’è una storia affine, con dentro il rapimento di una dea verso luoghi sotterranei, il recupero della dea stessa, un cinghiale…è il mito di Demetra/Persefone, rapita da Ade nell’oltretomba; anche qui la Vita è in  pericolo, e uno degli animali attribuiti a Demetra è proprio il cinghiale.
    Certo, nel mito indiano c’è una lotta tremenda, mentre in quello greco manca lo spargimento di sangue, manca Occhio-d’Oro. Perché Ade dell’oltretomba, delle oscurità, delle aree  sconosciute, del buio, è potentissimo e non ce lo sogniamo nemmeno di poterlo distruggere. Il mito greco trova un compromesso: dice che periodicamente la Dea deve tornare a regnare le zone oscure, e periodicamente risalire. Ade, in pratica, è un’energia molto più definitiva rispetto a Occhio-d’Oro (ha già i superpoteri, lui, non ha bisogno di procurarseli): con una qualità simile, si può solo negoziare, mica si può pensare di annientarla!

    Prithvi - Yoga e Mitologia - la terra e il cinghiale

    Prithvi è l’essenza dell’elemento Terra. È ‘colei che sostiene ogni cosa’: infatti nell’iconografia è rappresentata seduta su una piattaforma quadrata (= simbolo della stabilità e della terra), sorretta da 4 elefanti, che sono i 4 angoli del mondo. Può avere due o quattro braccia; spesso è rappresentata con del grano o  frumento in una mano, esattamente come le rappresentazioni di Demetra, e una delle mani è sempre in Abhaya Mudra, che è il gesto simbolico, Mudra, ‘che scaccia la paura‘; l’altra è in Varada Mudra, il gesto ‘del dono‘.
    E cosa c’è di più rassicurante della Terra che ci dice ‘Non aver paura, ti darò quello che ti serve’?

    Per questo Occhio d’Oro e Ade sono comunque simili: se non ci fossero loro, nelle due mitologie affini eppure differenti, non potremmo sapere che i ‘mondi’ possono comunicare, che si può finire nell’oscurità dell’Ade o del fondo dell’oceano.
    Se non ci fossero loro, non sapremmo che, capitasse mai di perderci nel buio, di toccare il fondo, beh da lì si può risalire
    Che possiamo attivare le energie che ci salvano (con un lotta pazzesca, oppure con una negoziazione).
    Che, alla fine, Prithvi, la Terra, sostiene sempre tutti gli esseri viventi e quindi anche noi, se solo ci autorizziamo a lasciarci sostenere, ad avere più fiducia nel movimento  della Vita.

    Come mai proprio il Cinghiale? [continua…]

    NB: per provare l’energia di Prithvi, c’è anche un bellissimo Mudra dedicato, QUI
    Se ti stai chiedendo cosa siano i Mudra…QUI!
  • Mudra: ovvero le mani sanno tutto #2 parte – Anjali Mudra

    Mudra: ovvero le mani sanno tutto #2 parte – Anjali Mudra

    QUI l’introduzione.

    Mudra Yoga, Anjali Mudra, KeYoga, Laura Voltolina


    Il mio Mudra preferito, e mi piace inserirlo per primo, si chiama Anjali Mudra, che significa Gesto dell’Offerta.

    [Anjali, per la cronaca, è anche un bellissimo nome di battesimo]
    Iniziamo, a  partire dalla nostra postura ‘felice’, unendo i polpastrelli delle dita davanti al cuore, piano, senza ‘schiacciare’ troppo. 
    Poi le dita, poi i palmi.
    Facciamo attenzione a mantenere le spalle rilassate: infatti le mani stanno unite con facilità, non è necessario spingere.
    Se utilizziamo la giusta tonicità (= non troppo, non troppo poco, vedi sopra…), allora percepiremo la chiusura del circuito elettrico del canale del cuore.
    Tra un palmo e l’altro c’è uno spazio microscopico ma denso, e se saliamo con l’ascolto lungo le braccia, potremo percepire  lo spazio potente e dolce del cuore.
    Anjali Mudra, Yoga Mudra, KeYoga, Laura Voltolina
    Amo questo Mudra soprattutto perché è un gesto di presenza; in larghissima parte del mondo è un gesto di saluto: e quando salutiamo qualcuno, stiamo dicendo ‘sono qui, adesso, sono presente per te‘.
    In altri luoghi del mondo è un gesto di preghiera: e cos’è la preghiera se non essere presenti alla divinità, al numinoso?
    Presenza al centro: mano destra e mano sinistra unite al centro, uniscono passato/futuro, uniscono maschile/femminile ecc.

    È un gesto intensissimo nella sua semplicità.
    Può essere praticato di per se stesso stando seduti o in piedi; chi pratica abitualmente Asana (che sono le forme, le posizioni, dello Hatha Yoga), lo troverà a incorporato anche , ad esempio, in Vrksasana (la posizione dell’albero).

    I benefici di questo Mudra sono moltissimi; trovo che l’aspetto interessante di ciascuna esperienza sia l’aspetto personale: il margine individuale, ciò che il singolo Mudra porta a chi lo sta praticando, in quel preciso momento.
    Detto questo, Anjali Mudra parla dell’offerta: offerta di sé, presenza, e dunque conduce a ‘centrarsi’ e, come sempre quando siamo ‘focalizzati’ su noi stessi, l’ansia si dilegua. Entriamo in contatto con la parte più autentica e bella di noi: quella, appunto, che si offre.
    E’ un gesto di disponibilità, a se stessi e al mondo.

  • Mudra: ovvero, le mani sanno tutto (prima parte)

    Mudra: ovvero, le mani sanno tutto (prima parte)

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    Laura Voltolina, ritratto by Riccardo Ciriello

    Sbarchi dall’altra parte del mondo, India del Sud; in solitaria, e in India non c’eri mai stata.
    La prima volta che hai visto quel gesto, quel movimento lì, eri ancora in aeroporto.
    L’avevi capito dall’incipit che sarebbe stato un viaggio interessante: hai subito sbagliato coda all’immigrazione e, anziché con gli stranieri, ti sei accorta troppo tardi di essere in quella dedicata agli indiani, perciò  hai trascorso tutta l’ora buona che c’è voluta per arrivare a mostrare il tuo visto nuovo di zecca sperando che al desk non decidessero di mandarti a rifare la coda dalla parte corretta.
    Al tuo turno l’addetto ti guarda, ondeggiando la testa a destra e sinistra.
    Pensi caspita, nemmeno il tempo di sbarcare e già sono nei guai, perché ti è immediatamente chiaro che, qualsiasi cosa significhi, quel gesto lì, non promette niente di buono; invece lui ti ha piazzato il timbro sul passaporto e via, sei uscita.
    Hai pensato che l’addetto avesse il Parkinson.
    Quando hai visto che anche l’usciere della guest house, la cameriera del ristorante e l’omino che vendeva banane al chiosco ambulante oscillavano la testa, hai sospettato che potesse essere qualcosa di diverso da un’epidemia di Parkinson.
    È un modo di assentire, ringraziare, riconoscere che sei lì, presente, stare nel ritmo delle parole che si dicono e che si ascoltano. 
    È una comunicazione gestuale.
    Che poi sono italiana e proprio noi italiani, con la gestualità, abbiamo un rapporto che definirei privilegiato.
    Non solo movimenti della testa, ma delle mani, le mani soprattutto: sono la nostra specialità.
    Gesticolare fa parte integrante nostro modo di sentire, e di comunicare
    Proprio come in India.

    Proprio come nell’arte
    Una delle raffigurazioni pittoriche super antiche che preferisco si trova in una grotta in Argentina e risale a una cifra di anni fa – e mai ‘cifra’ è stato più adatto. Indovinate cos’hanno rappresentato, quegli autori paleolitici?
    Esatto, mani. 
    Una foresta di mani, oltretutto, che toglie il fiato da quant’è bella.

    Importanza delle mani fin dalla preistoria, Mudra Yoga
    Cuevas de las  manos – Argentina

    Nei dipinti, negli affreschi, nelle icone a tema religioso, nei mosaici, nelle sculture, insomma in qualsiasi raffigurazione soprattutto a tema religioso, la rappresentazione delle mani ha un significato preciso: le mani sanno tutto, insomma.
    In India queste posizioni delle mani, delle dita, dei piedi, degli occhi, della testa, della lingua, si chiamano Mudra, che significa “sigillo” o “gesto simbolico”.
    Sono fondamentali nella danza classica (bharatanatyam, kathakali), nel teatro, nella raffigurazione delle divinità rappresentate nei templi, che siano induisti o buddisti.
    Anche nello Yoga ci sono i Mudra.
    Avete presente quelle immagini che ritraggono solitamente una fanciulla, seduta a gambe incrociate con i pollici e gli indici delle mani che toccano formando due piccoli cerchi? Foto così vengono utilizzate per venderci di tutto, dallo yogurt a un viaggio in Sicilia.
    Ecco ad esempio quel gesto lì delle mani, quello è un Mudra; nello specifico si tratta del sigillo detto della consapevolezza (cit) o della conoscenza (jnana).
    Nello Yoga, i Mudra sono potenziati: alla forza del messaggio simbolico, si unisce l’energia derivante dalla chiusura dei ‘circuiti elettrici’ dei canali energetici.
    Sono uno strumento formidabile per la meditazione e per la salute.
    Pronti a sperimentare?

    Qui tratteremo degli Hasta Mudra, che sono i Mudra delle Mani.
    Prima di iniziare 
    Un aspetto veramente importante nei Mudra delle mani, spessissimo trascurato, è che ciascuno trovi la propria ‘qualità di pressione’, perché se premiamo troppo le dita tra loro percepiamo la forza brutalmente muscolare, e ci perdiamo la sensazione sottile della chiusura dei circuiti energetici; va da sé che se la pressione è troppo labile, ci perdiamo ugualmente le percezioni sottili.
    L’invito, in questa pratica potente e così semplice da poter apparire banale, è sempre di trovare il proprio, personale, ‘tocco’.

    Un altro elemento fondamentale, lo esplicito anche se  ovvio, è che quasi tutti i Mudra delle mani si praticano seduti, o in piedi: trattandosi di ‘ascolto sottile’ è necessario che la posizione, seduti a terra, su un cuscino, su una sedia, in piedi…qualsiasi essa sia, sia ‘felice’, ci faccia sentire bene: perché che razza di ascolto profondo può esserci se stiamo soffrendo per dolori atroci alle articolazioni, al dorso, e ci sentiamo infelici?

    Quindi: postura felice e…via! 
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  • Il figlio del monsone – Ganesha (seconda parte)

    Il figlio del monsone – Ganesha (seconda parte)

    Ganesha, mitologia indiana, Yoga e Mitologia, KeYoga, Laura Voltolina
    [prima parte QUI]
    D’altronde, come diceva una mia saggia antenata, c’è sempre (almeno) una soluzione, e Shiva lo sa bene!
    Ordina ai suoi attendenti, I Gana, di andare a cercare una testa per sostituire quella decapitata al fanciullo.
    Nella versione più diffusa del mito si narra  che i Ganapresi dall’affanno di obbedire all’istante, portassero a Shiva la testa della prima creatura incontrata: un elefante, appunto, dato che Shiva è uno che può permettersi di ordinare una testa, così, senza specifiche…

    La versione che preferisco io, invece, è quella in cui Nandi, il toro bianco cavalcatura di Shiva, vaga coscienziosamente per i tre universi perché non basta una testa qualsiasi, deve trovarne una adatta a stare sul corpo del figlio di Parvati!
    Ed è quando incontra Airavata, l’elefante emerso all’inizio dei tempi dal frullamento dell’oceano di latte [un’altra storia, raccontata QUI] che la ricerca ha termine: Airavata non è mica un elefante qualsiasi, infatti. 
    Non solo è nato dall’oceano cosmico di prima dell’inizio, quindi è blasonato, ma aveva il compito di portare l’acqua dal sottosuolo al cielo, dove Indra, che per l’appunto è il dio del cielo, l’avrebbe fatta piovere sulla terra.
    La testa di Airavata conferisce a Ganesha la connotazione di abbondanza e fertilità che lo caratterizza, e forse per questo è la versione che mi piace di più. Per questo, e perché adoro quando i miti si incrociano…

    Solo quando Ganesha è completo, con la testa dell’elefante – che sia Airavata o un elefante qualsiasi – sul corpo di fanciullo, che diventa a tutti gli effetti il figlio del monsone.
    Così, Vinayaka diventa Ganesha, nato-due-volte, completo, integrando le energie di Parvati, la Dea che lo ha creato, e di Shiva, il Dio che lo ha ri-creato.
    La sua cavalcatura è – come sa bene la signora di quell’internet café a Varanasi – un topolino: i topolini si intrufolano ovunque, sono incontrollabili, non conoscono ostacoli.
    Esattamente come Ganesha.

    IL PUNTO DI VISTA DEGLI OSTACOLI
    Ganesha significa ‘leader dei Gana’, che sono gli attendenti di Shiva, gli squatters del monte Kailash [descritti QUI].
    Non fanno del male, ma fanno paura, tanta paura: mettono alla prova, noi e il nostro coraggio. 
    Ma Ganesha è Vinayaka, e i Vinayaka sono un gruppo di demoni molesti che creano difficoltà: insomma Ganesha, a dispetto del suo aspetto tenerone e gentile, del suo ventre tondo e dell’atteggiamento innocuo, è un’energia potentissima!
    Infatti è colui che pone ostacoli, ove necessario; è colui che li rimuove, ove utile; un Giano Bifronte orientale, un ‘allenatore’ spirituale, la raffigurazione perfetta del guru interiore [se n’è parlato, tra le altre cose, QUI].

    Ha senso quindi invocarlo quando arriva un cambiamento, un inizio, un movimento: nel gioco degli ostacoli, ci svela la fiducia nel movimento cosmico della Vita.
  • Flessibilità, sostegno e altre avventure (della Colonna Vertebrale)

    Flessibilità, sostegno e altre avventure (della Colonna Vertebrale)

    Colonna Vertebrale, ritiro Yoga, KeYoga

    [Laura Magni è una giovane ricercatrice, una scienziata creativa, una yogini attenta e sono sempre felicissima quando si iscrive ai ritiri Yoga. Perché ‘lavorare’ con persone che si mettono in gioco e si autorizzano a ‘sentire’ e a seguire le percezioni è una grande ricchezza e , forse, uno dei motivi per cui insegno Yoga.

    Questo piccolo ma efficacissimo feedback si riferisce a questo ritiro QUI]

    Ti voglio ringraziare molto per questi giorni, per questo approccio al Corpo che mi (e ci) hai permesso di esplorare, così non forzato e allo stesso tempo estremamente presente
    Stamattina nella mia pratica il piacere ha sostituito lo sforzo e la fluidità del Corpo ha risuonato lungo tutta la colonna, in ogni cellula

    Il giorno dopo il ritiro è per me il più ricco, per la mia crescita, perché è come se durante la notte, e nel partire e tornare alla realtà più quotidiana, i microaggiustamenti e la forma dei cambiamenti trovino il posto nel Corpo, si facciano spazio e si adagino..si integrino, direi.
    Pronta per continuare con questo sentire più esaltato e un contatto più integrato! 
    A presto cara, incredibile Laura.
    L. Magni

  • Essere Corpo – ovvero la prospettiva del Corpo, i Guru e la luna piena (di luglio)

    Essere Corpo – ovvero la prospettiva del Corpo, i Guru e la luna piena (di luglio)

    Oggi è luna piena.
    È luglio e, dunque, l’ardita osservazione è che si tratti della luna piena di luglio.
    La luna piena di luglioin India è una luna piena speciale e vabbé che, come mi ha fatto notare un amico ieri sera, l’India è innegabilmente dall’altra parte del mondo, ma resta pur sempre terra natia dello Yoga (nonché, per me, luogo dell’anima e un poco mi si è spaccato il cuore quando, alla chiusura della stagione dei corsi settimanali, con occhi grandi di entusiasmo mi si è chiesto ‘allora, vai in India quest’estate?’, perché no, non ci vado. C’ho alcuni bellissimi ritiri fino a settembre, per fortuna: mi consoleranno), comunque dicevo in India è la Luna Piena dei Guru: d’ora innanzi Guru Purnima.
    E questa festa può avere un significato denso anche per noi, da questa parte del mondo: perché Guru Purnima è dedicata agli insegnanti; Gu-ru: ovvero chi rimuove ‘gu’, l’oscurità e porta ‘ru’, la luce.
    Quelli che ci hanno cambiato la vita.
    Quelli che hanno creduto in noi, che hanno dedicato la propria generosità a condividere la loro visione, perché poi noi potessimo trovare la nostra strada, il nostro Guru interiore, che alla fin fine, sia detto, è l’unico che veramente conta.
    Guru Purnima è una festa dedicata nello specifico a un veggente che adoro: si chiama Vyasa, secondo la tradizione ci ha tramandato veramente un sacco di cose bellissime e, soprattutto, ha dettato il Mahabharata a Ganesha (QUI la prima parte della storia di Ganesha e, col suo aiuto, magari a breve avrò modo di scrivere la fine di quella storia lì e, se proprio mi assiste, anche le vicende che lo hanno portato a collaborare con Vyasa per la stesura del Mahabharata, appunto), che è il mio poema epico preferitissimo.
    Insomma, Vyasa è il mio eroe e non si può proprio evitare di pensarlo quando arriva Guru Purnima.
    Oltretutto alcuni giorni fa, per una serie di coincidenze che mi hanno colta di sorpresa mentre organizzavo tutt’altro nel weekend incipiente, ho trascorso alcune ore a Venezia, tra un vaporetto e l’altro, assieme a Gabriella Cella, la maestra con la quale ho studiato per quattro anni. 
    E certamente lei, a suo tempo, ha creduto in me quando ero molto giovane (e nemmeno davo garanzie, vista l’età, gli studi all’università e un precariato lavorativo – per l’epoca – incredibile, di portare a termine la scuola, dato che 4 anni possono essere lunghi e tosti per chiunque).
    A distanza di tanto tempo, stare assieme su quei vaporetti ci ha lasciato una grande gioia e l’innegabile sensazione di essere sempre state vicine, a prescindere.
    Insomma di Guru Purnima dovevo proprio scrivere, ecco, perché una festività dedicata a chi  ci ha aiutato a crescere ha qualcosa di generoso e forte e vorrei che anche qui ci fosse una festa ufficiale dedicata ai maestri di ogni latitudine.
    Il Guru vero, autentico, infallibile, viene evocato dal lavoro coi maestri che ci hanno trovati, ed è interiore.
    L’intuito che ci indica la direzione, l’istinto che ci guida nelle scelte.
    La luce che brilla dentro.
    Per svelarla, beh, ci sono sì, i maestri in carne e ossa.
    Ci sono anche le persone ‘sbagliate’, gli incontri che avremmo preferito non accadessero, gli eventi e gli ostacoli che ci hanno permesso di modellarci, di trovare energie nascoste in pieghe insospettate dell’anima.
    Proprio oggi, e proprio per onorare i Guru tutti, mi viene da consigliare una lettura.
    È un libro che amo, è un testo svelto, scorrevole, scritto in forma di domande e risposte, in capitoli che (se siete pigri oppure curiosi) non serve nemmeno leggere di seguito.
    Si chiama Essere Corpo, Tea Edizioni.
    L’autore è Jader Tolja, anche lui mio insegnante, di Anatomia Esperienziale.
    Parole agili che forniscono punti di vista ‘incarnati’, ché il Corpo è il vero Guru.
    Essere Corpo è un viaggio attraverso gli aspetti della vita quotidiana, dal vestirsi al nutrirsi, all’abitare, al muoversi, all’allenarsi, alla salute e perfino alla spiritualità…tutto dal punto di vista del Corpo e della  sua consapevolezza.
    A parte le persone che sono abituate a quello che viene chiamato ‘approccio somatico’ e a chi ha già lavorato, ad esempio, con me nello Yoga, che sicuramente troveranno conferme e spunti intelligenti, questo libro farebbe bene anche e soprattutto a chi considera ‘corpo’ come ‘quella parte che sta appesa sotto la testa’.
    Come ben sappiamo, queste persone sono la maggioranza.
    All’interno di questo libro bello, c’è il mio capitolo preferito, una vera e propria ode al Guru interiore: parla – guarda un po’! – degli insegnanti guru.
    Quelli che ‘fanno’ i guru (e, anche qui, come purtroppo sappiamo, sono la maggioranza).
    Delinea chiaramente i pericoli dell’interazione con questi ‘personaggi’, e in modo gentile ma deciso anche le possibilità insite nell’insegnamento autentico come circolo virtuoso il quale, rispetto all’insegnamento-del-guru-farlocco:
    Per chi insegna, ciò significa che una maggiore esperienza porta a maggiore professionalità, che a sua volta fornisce una maggiore gratificazione, che favorisce una maggiore autostima. Grazie a questa dinamica il bisogno di sentirsi speciali o superiori si riduce e questo permette di sviluppare un maggiore senso di realtà, che a sua volta conduce a maggior libertà di espressione e alla realizzazione del proprio Sè.
    Specularmente, chi partecipa a un corso sviluppa più confidenza in ciò che sta apprendendo, la pratica diventa più gratificante e ciò produce una maggiore autostima e minore necessità di figure esterne con cui identificarsi.
    […] perché come si apprende determina quello che diventeremo molto più di ciò che si apprende”.

    Leggendolo, si scopre che può esserci molto più Yoga in un testo che nominerà lo yoga sì e no quattro volte in trecento pagine, piuttosto che in un libro ufficialmente dedicato allo Yoga che poi mostra solo sterili contorsionismi.

    Voglio condividere una parte del saluto conclusivo degli incontri di Yoga, con tutta la gratitudine che esiste:
    mani giunte alla fronte, per ringraziare il nostro Guru – persone, situazioni, occasioni, ostacoli – per gli insegnamenti ricevuti’

    A (tutti) i miei Guru
  • Hai mica detto ‘forza’?

    Hai mica detto ‘forza’?

    KeYoga - Intelligenza del Corpo

    Certe volte capitano email così: quando succede, mi si riempie la giornata di luce e di gratitudine per la generosità verso chi condivide, con te e con gli altri, il proprio punto di vista, la propria rielaborazione di un percorso fatto assieme (nello specifico, questo QUI). Perché, in fondo, il senso di un lavoro sta, anche e soprattutto, nella condivisione.

    Trovare la forza vera
    quella che non è fatica
    che casomai possiamo chiamare energia
    che non è ‘la nostra’ ma che ci connette con qualcosa di più ampio, più completo.
    Ho ritrovato le  tue parole e le ho dette a modo mio.
    Ti volevo ringraziare per questa esperienza, te e le persone che ho incontrato.
    Quando ero a Padova il clima invernale e la conseguente penuria di luce mi avevano fatto pensare che sarebbe stato difficile collegarmi col flusso, col presente in continuità. 
    Uno stato di benessere mi ha guidata, pervasa, anche quando ho lasciato la città.
    Ho avuto il timore di smarrirlo, il flusso, ma no: mi accompagna.  
    E, tornata a casa, ho avuto la meravigliosa sorpresa di percepire una nuova luce che, pian piano, allontana l’inverno.
    A presto, 
    Silvana Salsedo
  • Serpenti (ovvero della Coscienza)

    Serpenti (ovvero della Coscienza)

    Il serpente scuote 
    i suoi diamanti in acqua
    e ciò che amiamo 
    brilla e gioca con noi 


    Il serpente scuote 
    i suoi diamanti in acqua
    e ciò che amiamo
    brilla e scorre via 


    Il serpente scuote 
    i suoi diamanti in acqua
    H. Dull
    – L’hai visto se il serpente ce l’aveva, la testa triangolare?

    – Ma se sono scappato subito!
    – Sì, ma la forma della testa? Prova a far mente locale…Zio Google dice che, se non era triangolare, è solo una biscia.
    – Non lo so, non mi ricordo…
    – Comunque qui dice che in questa regione, statisticamente, ci sono poche vipere.
    – …
    – Che sono gli unici serpenti velenosi in Italia. Lo dice Internet, eh.
    – …

    L’ultima volta che mi è capitato ero in campagna e un serpente (la forma della cui testa, per onor di cronaca, è rimasta ignota), nascosto dentro un vecchio fienile, è balenato un nanosecondo nell’aprire il portone di legno.

    Un guizzo appena, si è immediatamente dileguato.
    La volta precedente, invece, l’incontro era stato forzato da un ragazzino indiano che mi aveva scoperchiato sotto il naso un apparentemente innocuo cesto in vimini, sbattendomi faccia a faccia con un povero cobra nero, arrotolato lì dentro. ‘Povero’ sono riuscita a pensarlo sopravvivendo a svariati infarti, dopo aver ingiunto al ragazzino di non azzardarsi mai più, che l’aorta non mi avrebbe retto altri cobra improvvisi, vivi dormienti o che.

    Me le ricordo tutte, le volte in cui ho incontrato serpenti.
    Mi delude rimanerne, sempre, leggermente spaventata (il breve episodio col cobra non rientra affatto nella categoria dei ‘leggermente’, è chiaro). 
    Incolpo la mia vita di cittadina che, animali domestici a parte, incrocia giusto piccioni e nutrie, ma so che c’è ben altro, riguardo ai serpenti.
    Loro, mi fregano sempre.
    Animali (e simboli) potentissimi, hanno su di me un fascino totale eppure, quando li incontro, mi fregano: rimango senza fiato, con questa curiosità che arriva quella frazione di secondo troppo tardi, quando ormai il serpente se n’è andato.

    Il mistero che sottendono è lì, esattamente dentro quel turbamento.
    Resto di stucco, ogni volta.

    Non sono sola, nel turbamento. 

    Perché i serpenti sono misteriosi, affascinanti e spaventosi per l’umanità intera, da sempre: le storie che li riguardano esistono ovunque, nelle mitologie, nei racconti, nelle fiabe, nei folclori.
    E  siccome le idee, quelle eterne e preziose, sono nelle reti tessute dai racconti e l’essenza di una storia antica arriva, trasversale ai secoli, incredibilmente dritta e precisa a parlarci esattamente di noi, qui ed adesso, è ripensando soprattutto a quei (poveri) cobra arrotolati nei vimini dei ragazzini a Varanasi che voglio raccontare i Naga: meravigliosi esseri semidivini, metà umani e metà serpenti, nell’Oriente più lontano.


    Naga, Serpenti nella mitologia indiana, Yoga e Mitologia, KeYoga
    Forti e bellissimi, hanno molti superpoteri: possono cambiare forma diventando completamente umani (o serpenti), il loro veleno è mortifero, hanno l’elisir dell’immortalità e il dono della guarigione.
    Portano una gemma incastonata al centro della testa (sulla cui forma, triangolare o meno, nessuno ovviamente si interroga) che è la panacea universale per curare qualsiasi malanno. 
    Questi gioielli permettono ai Naga di illuminare e sondare la profondità più oscura e impenetrabile.
    Popolano un regno subacqueo, incantato e meraviglioso, la cui capitale sotterranea, Bhogavati, significa ‘incantevole’ ed è governata dal Naga Vasuki, di cui abbiamo narrato QUI.
    Gli abitanti vivono in  spettacolari palazzi costruiti con pietre preziose.
    Sono i guardiani dei tesori  – oggetti dai poteri magici – nascosti in fondo agli oceani, ai laghi, ai fiumi; portano la pioggia, sono la fertilità.


    I Naga, dalle profondità ctonie dell’inconscio, sono la memoria più antica e arcaica e anche la nostra consapevolezza più radicata, più immediata. 
    Più potente.
    Quest’ambiguità, questo potere: come potrebbero non lasciar sgomenti?


    La saggezza è radicata in loro, fin dall’origine, dato che discendono dal veggente Kasyapa, uno dei rishi, i saggi delle origini, profondi conoscitori delle leggi degli Universi, temuti (e dunque tenuti in grande considerazione) dagli stessi Dei.
    Chi non desidera bellezza, ricchezza e saggezza? Ci sono vere e proprie dinastie regali in India e Indocina che fanno risalire il proprio sangue nobile dall’unione antica tra un essere umano e una Nagini, una serpentessa.

    Il riposo di Visnu, mitologia indiana, Yoga e Mitologia, KeYoga, Laura Voltolina
    La storia che meglio racconta l’eternità arcaica, fluida e acquatica dei Naga è quella di Ananta.
    E non è nemmeno una storia: è un’immagine.
    Nell’oceano di prima dell’inizio, senza sponde né fondo, galleggia il dio dormiente.
    È Visnu, il Conservatore della Vita, ma dorme e dunque non sa nulla: dell’oceano, della vita, di se stesso.
    Nulla esiste, ancora: c’è solo il sonno del dio addormentato.
    L’unica creatura sveglia, e dunque l’unica esistente, in quell’eternità prima della coscienza, è Sesha/ Ananta, il Naga, il serpente cosmico dalle mille teste.
    Infatti il dio galleggia coricato sul corpo del serpentone; mille teste vegliano il suo sonno.
    Un’immagine perenne come solo può esserlo un tempo la cui misura non esiste.
    L’inizio accade.
    Un suono, un ritmo: un tamburo.
    È Shiva, il Distruttore, che danza la sua danza cosmica.
    Nasce il tempo.
    Il battito.
    Il respiro.
    Ananta sente la vibrazione, corre un fremito tra le sue spire, sveglia il dio addormentato e, in quel preciso istante, dall’ombelico di Visnu esce un fiore di loto.
    Il fiore si schiude e al suo centro ecco Brahma, il dio dell’Inizio, con 4 volti rivolti alle 4 direzioni cardinali principali.
    Nasce lo spazio.
    In un istante, l’eternità diventa tempo, spazio, coscienza.
    L’universo ha inizio così.
    La nostra vita, ha inizio così.
    Ciò che resterà, dopo che quest’universo nuovo di zecca verrà consumato, sarà Sesha/Ananta, il serpente: Sesha significa  “la rimanenza”; l’altro suo nome, Ananta, significa infinito.
    La rimanenza infinita, l’arcaica saggezza, che ci porta a nascere, infinite volte, ad ogni respiro, ogni giorno, ogni vita.

    Quest’immagine mi lascia senza fiato.

    Mi fregano sempre, i serpenti…

  • Il figlio del monsone – Ganesha (prima parte)

    Il figlio del monsone – Ganesha (prima parte)

    Ganesha, storia delle divinità indiane, Yoga e Mitologia, KeYoga, Laura Voltolina

    Gli altri clienti occidentali nell’internet point di Varanasi si irrigidiscono, ci scambiamo occhiate perplesse e allora no, non è stata un’impressione solo mia.
    Un topolino, in un lampo, mi è proprio passato vicino e l’istinto di sollevare di scatto i piedi da terra ha avuto la meglio sulla nonchalance da viaggiatrice navigata con cui cerco (maldestramente) di mascherare lo stupore costante che vivo in India, dove il confine tra quello che vedi e ci credi, quello che vedi ma fai fatica a crederci e quello che vedi ed è totalmente incredibile, beh è impalpabile, fai confusione.

    Quel negozio minuscolo, con tastiere appiccicose e annessa rivendita di bibite e anacardi, brulica, innegabilmente, di topolini.
    Ganesha”, commenta serafica la proprietaria, che lì con marito, tre figli, i pc, le bibite, i sacchetti di anacardi e i topolini, ci vive, puntualizzando quanto sia assurdo il disgusto che una cosa normale come il passaggio del roditore ha evidentemente innescato in noi.
    In effetti, la signora ha ragione: Ganesha, il dio con la testa di elefante che rimuove gli ostacoli e benedice ogni inizio (che si tratti di gettare le fondamenta di un edificio, di un viaggio o di un rituale religioso), viene rappresentato sul dorso di un topolino. 
    Mi vergogno un po’ del mio scatto nervoso, da figlia dell’occidente, che magari l’ha offesa o, peggio ancora!, potrebbe aver offeso Ganesha, ma ogni volta che apparirà un topo, lì o ovunque, so che avrò un riflesso analogo e dunque mi metto in pace.
    Anche fuori dall’unica chiesa cattolica che mi è capitato di incrociare nel mio vagare per l’India c’era un microtempio dedicato a Ganesha, in cui i fedeli accendevano incensi prima di entrare e pregare davanti al crocefisso: la benedizione del dio-elefante va chiesta all’inizio, è l’incipit di qualsiasi cosa – compreso il rituale di una religione lontana dall’induismo. 
    Non fa una grinza.

    Storia di Ganesha, Yoga e Mitologia, KeYoga, Laura VoltolinaÈ una divinità talmente amata che esiste un numero incredibile di racconti che lo riguardano, sugli esordi in particolare; scelgo la storia più diffusa e divertente.
    Ganesha Charthurti è la grande festa annuale dedicata alla sua nascita; ci sono incappata senza averlo previsto, per una di quelle strane sincronicità che rendono la vita interessante.

    Così so, per averlo vissuto in prima persona, che la festa dura diversi giorni, che blocca il traffico delle città, che riempie le strade di gente che balla e canta e grida in centinaia di processioni coloratissime che portano rumorosamente a spasso effigi del dio in varie dimensioni, e che coincide con la fine del monsone.

    [come sia viaggiare in India nel periodo dei monsoni, beh, è un’altra storia. Basti sapere che l’esperienza conferma la validità delle indicazioni tradizionali dei saggi vagabondi: loro, nei mesi monsonici, a irrefutabile prova di saggezza certa, si fermavano]

    I monsoni sono attesi, inevitabili e, soprattutto, sono ambigui: vero che servono per nutrire l’agricoltura e dunque sono benedetti, ma sono pure un periodo infausto. 
    Tutto è umido e c’è fango ovunque.
    Appena le piogge iniziano a scemare, la terra si copre di verde e porta con sé suo figlio, colui che rimuoverà tutti gli ostacoli nel cammino verso il tempo dei raccolti.
    Quel figlio è, appunto, l’amato e potente Ganesha.
    I genitori di Ganesha sono Shiva e Parvati, e la loro storia d’amore è già stata narrata QUI.
    Parvati è l’energia della Vita, Shiva è il dio dello Yoga e della Danza, il Distruttore.

    [Una volta, un curioso mi ha obbiettato ‘Come, il tuo dio preferito è il Distruttore?’
    Ebbene, sì. L’energia di Shiva è quella che ci permette di allargare, se non distruggere, le scatolette mentali che ci limitano nella percezione della nostra Interezza. Alcuni le chiamerebbero, queste scatolette, ‘ego’]

    Comunque Shiva è una qualità energetica (da qui in poi: ‘divinità’) molto disponibile: se lo raggiungi.
    Non aspetta che tu stia diecimila anni su un piede solo in cima a una montagna, prima di manifestarsi.
    Certo, sta sprofondato in meditazione eoni ed eoni, ed è circondato dai suoi Gana, che sono schiere di creature spaventose, gli Hooligans del paradiso. 
    Fanno paura, i Gana, sono tanti e bruttini, e se ti avvicini a Shiva senza che il desiderio di abbattere i muri del tuo ego sia veramente profondo, allora ti lascerai spaventare. La guardia personale di Shiva avrà fatto il suo dovere, proteggendo la quiete del proprio signore. Se ti avvicini a Shiva con la dovuta sincerità e non avrai paura, i Gana non ti faranno niente e lui risponderà alla tua richiesta.
    Comunque Shiva e i Gana stanno praticamente sempre assieme, tranne quando lui è in meditazione.
    Parvati condivide la quotidianità, lassù sull’inaccessibile monte Kailash dove abitano, con Shiva (quando c’è) e coi Gana (tutto il tempo). 
    A lei, che assiste costantemente alle prove di fedeltà assoluta dei Gana per Shiva, piacerebbe molto avere qualcuno altrettanto devoto
    Inoltre la vita sul tetto del mondo, per quanto amabile nella sua ruvida semplicità, è solitaria. 
    Insomma, Parvati vuole un figlio
    E Shiva se ne sta a meditare nella foresta, o in una grotta irraggiungibile.
    Sicché lei, che è pur sempre a Dea, prende la curcuma che ha usato per strofinarsi la (divina) pelle dopo un bagno, modella un ragazzino e gli dà vita: finalmente ha qualcuno di totalmente suo, il figlio desiderato.
    Il fanciullo si chiama Vinyayaka, che suppergiù significa ‘senza padrone, cioè già dal nome è chiaro che la sua nascita è speciale, priva della collaborazione di un padre.
    Parvati piazza il fanciullo davanti all’entrata dei suoi alloggi e gli ordina di impedire l’accesso a chiunque.
    Quando Shiva ritorna alla grotta della Dea, è sorpreso di trovare un guardiano, mai visto prima, che non lo riconosce e non lo fa passare.
    Preservare la calma quando un ragazzino sconosciuto sbarra l’entrata di casa tua e, colmo dei colmi, proclama di essere figlio di tua moglie, è impossibile anche per Shiva.
    Non può finire bene.
    Il Dio ordina ai suoi Gana di sbarazzarsi del fanciullo.
    Nella lotta che segue il ragazzino sorprendentemente riempie di botte i Gana, così lo stesso Shiva, al colmo della rabbia, finisce per decapitare il povero Vinayaka. 

    Parvati però, adesso chi la sente?
    È furibonda, incontenibile, minaccia di distruggere gli universi e a Shiva risulta chiarissimo che non ci sarà più un solo istante di pace.
    Lei chiede, esige, pretende che Shiva le restituisca il figlio.

    Cosa fatta capo ha’, si dice, e vale anche nell’ipotesi di decapitazione. 
    Quando qualcosa è accaduto, è nel mondo, si può modificare, non cancellare.
    Nemmeno Shiva può.
  • L’Onda lunga della Luna (e dello Yoga)

    L’Onda lunga della Luna (e dello Yoga)

    Luna, Yoga per la Donna, Laura Voltolina

    Ai tempi, beh, c’era pochino, in giro.
    Le informazioni dovevi proprio andartele a cercare; le esperienze le facevi tutte sulla tua pelle (che, poi, le esperienze si facciano sempre e solo sulla propria pelle, per definizione, è una inevitabilità che ho constatato proprio in questa ricerca).

    Quando ho elaborato per la prima volta – dopo una vita di studio e sperimentazione personale –il percorso della Luna nel Pozzo, dedicato all’espressione del Femminile Corporeo fuori dai condizionamenti, non potevo che sviluppare qualcosa di autentico e originale, dunque.
    Anni dopo, sbam!, mille proposte, mille idee, mille attività.
    Ti piovono proprio addosso.
    Questo mi fa piacere, per me è bellissimo assistere all’allargarsi dell’interesse in un tema che ho così visceralmente a cuore.

    Un po’ come lo Yoga: 16 anni fa l’affermazione ‘insegno Yoga’ generava, quando andava bene, sguardi vacui o contriti ‘non arrivo a toccarmi la punta dei piedi’ , quando andava male, l’immancabile ‘ah, fai lo Yogurt?’.
    Adesso la reazione, quasi sempre, è ‘che stile di Yoga?’ [al netto della constatazione che  il mondo dello Yoga, negli ultimi tempi, richiama in effetti il circo (acrobati, maghi, clown e adorabili animali per ora domestici ma chissà, diamo tempo al tempo), il che innesca spesso e volentieri rabbiose polemiche interne, reazioni spazientite nei praticanti di lunga data e confusione in tutti gli altri.  Personalmente, polemizzare su ‘il mio stile è più yogico del tuo/di tutti gli altri’, o il tristemente immarcescibile ‘il mio maestro è migliore del tuo/di tutti gli altri’ – prodotti dell’inconfessato ‘io sono migliore (ovvero temo di essere peggiore) di te’ – mi pare un’inutile spreco di energie e, sotto sotto, testimonia un bel dispiegamento egoico, invisibile soltanto a chi, nella polemica, affonda].
    Di fatto io trovo irresistibile che la disciplina cui dedico la mia vita e il mio lavoro sia diffusa e conosciuta. Non posso farci nulla, mi vengono su sorrisi più che espressioni accigliate o sospirati ‘Shiva, dammi la forza’…

    Ecco, con la Luna nel Pozzo è stata un’escalation affine. 
    Solo che all’inizio le reazioni andavano da silenzi imbarazzati dall’evidente sottotitolo ‘caspita, una femminista odia-uomini, meglio stare alla larga’ a ‘ah, sì! Prendiamo un accendino e bruciamo i reggiseni!’.
    Alcune donne, curiose, hanno iniziato a partecipare, a praticare e a condividere, fuori dai preconcetti.
    Adesso, più o meno, l’ondata di interesse soprattutto sociale e culturale è fortunatamente più larga.
    Certo, molte idee e proposte che vedo in giro non mi suonano così originali, o approfondite, o ricche, ma va bene; di un’onda larga, grande, ancor più grande, abbiamo bisogno tutti, donne e uomini, e che quest’onda ampia contenga tutti gli inviti: c’è spazio per tutti.

    La Luna nel Pozzo ha una vita propria, ha esperienza di anni, si è arricchita ed è cresciuta coi contributi delle donne che hanno partecipato, delle loro luci, delle loro intuizioni, dei nostri scambi.
    Non è mai uguale a se stessa.
    Il lavoro che facciamo è sempre Corporeo, ché dal Corpo delle Donne non posso prescindere, io arrivo da anni – tanti – di Yoga e sono come gli animali (o come crediamo che gli animali siano): incapace di ‘sentire’ davvero una separazione tra Corpo, Mente, Emozioni, Anima o comunque vogliamo chiamare l’ineffabile.
    Dal Corpo che sperimenta e vive e si ascolta: è da da lì che arriva, ad esempio la scoperta di avere abitudini, magari ereditate da generazioni, a pensarci piccole, deboli, incapaci, non degne. E allora l’esperienza personale che emerge diventa anche sociale e culturale, e (anche, a volte) consapevolezza di una connivenza sottocutanea ai sistemi collettivi che schiacciano le donne.  Non si tratta mai di ‘chiacchiere’, insomma.
    Ciascun gruppo nel tempo ha rivelato una propria natura specifica, un proprio punto di vista, una propria ricchezza.

    Della Luna nel Pozzo amo lo svelamento degli Archetipi del Femminile, amo che siano incarnati nei Corpi, amo scoprire dalle condivisioni ciò che ciascuna ha trovato.
    Ogni volta che arriva il momento di guidare un nuovo cerchio di Donne curiose non sto nella pelle, chissà cosa troverò di ancora nuovo, ancora interessante, stavolta…non sono mai, mai rimasta delusa!

    con gratitudine, dunque, per tutte le Donne capaci di mettersi in gioco

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