Autore: Laura

  • Flessibilità, sostegno e altre avventure (della Colonna Vertebrale)

    Flessibilità, sostegno e altre avventure (della Colonna Vertebrale)

    Colonna Vertebrale, ritiro Yoga, KeYoga

    [Laura Magni è una giovane ricercatrice, una scienziata creativa, una yogini attenta e sono sempre felicissima quando si iscrive ai ritiri Yoga. Perché ‘lavorare’ con persone che si mettono in gioco e si autorizzano a ‘sentire’ e a seguire le percezioni è una grande ricchezza e , forse, uno dei motivi per cui insegno Yoga.

    Questo piccolo ma efficacissimo feedback si riferisce a questo ritiro QUI]

    Ti voglio ringraziare molto per questi giorni, per questo approccio al Corpo che mi (e ci) hai permesso di esplorare, così non forzato e allo stesso tempo estremamente presente
    Stamattina nella mia pratica il piacere ha sostituito lo sforzo e la fluidità del Corpo ha risuonato lungo tutta la colonna, in ogni cellula

    Il giorno dopo il ritiro è per me il più ricco, per la mia crescita, perché è come se durante la notte, e nel partire e tornare alla realtà più quotidiana, i microaggiustamenti e la forma dei cambiamenti trovino il posto nel Corpo, si facciano spazio e si adagino..si integrino, direi.
    Pronta per continuare con questo sentire più esaltato e un contatto più integrato! 
    A presto cara, incredibile Laura.
    L. Magni

  • Essere Corpo – ovvero la prospettiva del Corpo, i Guru e la luna piena (di luglio)

    Essere Corpo – ovvero la prospettiva del Corpo, i Guru e la luna piena (di luglio)

    Oggi è luna piena.
    È luglio e, dunque, l’ardita osservazione è che si tratti della luna piena di luglio.
    La luna piena di luglioin India è una luna piena speciale e vabbé che, come mi ha fatto notare un amico ieri sera, l’India è innegabilmente dall’altra parte del mondo, ma resta pur sempre terra natia dello Yoga (nonché, per me, luogo dell’anima e un poco mi si è spaccato il cuore quando, alla chiusura della stagione dei corsi settimanali, con occhi grandi di entusiasmo mi si è chiesto ‘allora, vai in India quest’estate?’, perché no, non ci vado. C’ho alcuni bellissimi ritiri fino a settembre, per fortuna: mi consoleranno), comunque dicevo in India è la Luna Piena dei Guru: d’ora innanzi Guru Purnima.
    E questa festa può avere un significato denso anche per noi, da questa parte del mondo: perché Guru Purnima è dedicata agli insegnanti; Gu-ru: ovvero chi rimuove ‘gu’, l’oscurità e porta ‘ru’, la luce.
    Quelli che ci hanno cambiato la vita.
    Quelli che hanno creduto in noi, che hanno dedicato la propria generosità a condividere la loro visione, perché poi noi potessimo trovare la nostra strada, il nostro Guru interiore, che alla fin fine, sia detto, è l’unico che veramente conta.
    Guru Purnima è una festa dedicata nello specifico a un veggente che adoro: si chiama Vyasa, secondo la tradizione ci ha tramandato veramente un sacco di cose bellissime e, soprattutto, ha dettato il Mahabharata a Ganesha (QUI la prima parte della storia di Ganesha e, col suo aiuto, magari a breve avrò modo di scrivere la fine di quella storia lì e, se proprio mi assiste, anche le vicende che lo hanno portato a collaborare con Vyasa per la stesura del Mahabharata, appunto), che è il mio poema epico preferitissimo.
    Insomma, Vyasa è il mio eroe e non si può proprio evitare di pensarlo quando arriva Guru Purnima.
    Oltretutto alcuni giorni fa, per una serie di coincidenze che mi hanno colta di sorpresa mentre organizzavo tutt’altro nel weekend incipiente, ho trascorso alcune ore a Venezia, tra un vaporetto e l’altro, assieme a Gabriella Cella, la maestra con la quale ho studiato per quattro anni. 
    E certamente lei, a suo tempo, ha creduto in me quando ero molto giovane (e nemmeno davo garanzie, vista l’età, gli studi all’università e un precariato lavorativo – per l’epoca – incredibile, di portare a termine la scuola, dato che 4 anni possono essere lunghi e tosti per chiunque).
    A distanza di tanto tempo, stare assieme su quei vaporetti ci ha lasciato una grande gioia e l’innegabile sensazione di essere sempre state vicine, a prescindere.
    Insomma di Guru Purnima dovevo proprio scrivere, ecco, perché una festività dedicata a chi  ci ha aiutato a crescere ha qualcosa di generoso e forte e vorrei che anche qui ci fosse una festa ufficiale dedicata ai maestri di ogni latitudine.
    Il Guru vero, autentico, infallibile, viene evocato dal lavoro coi maestri che ci hanno trovati, ed è interiore.
    L’intuito che ci indica la direzione, l’istinto che ci guida nelle scelte.
    La luce che brilla dentro.
    Per svelarla, beh, ci sono sì, i maestri in carne e ossa.
    Ci sono anche le persone ‘sbagliate’, gli incontri che avremmo preferito non accadessero, gli eventi e gli ostacoli che ci hanno permesso di modellarci, di trovare energie nascoste in pieghe insospettate dell’anima.
    Proprio oggi, e proprio per onorare i Guru tutti, mi viene da consigliare una lettura.
    È un libro che amo, è un testo svelto, scorrevole, scritto in forma di domande e risposte, in capitoli che (se siete pigri oppure curiosi) non serve nemmeno leggere di seguito.
    Si chiama Essere Corpo, Tea Edizioni.
    L’autore è Jader Tolja, anche lui mio insegnante, di Anatomia Esperienziale.
    Parole agili che forniscono punti di vista ‘incarnati’, ché il Corpo è il vero Guru.
    Essere Corpo è un viaggio attraverso gli aspetti della vita quotidiana, dal vestirsi al nutrirsi, all’abitare, al muoversi, all’allenarsi, alla salute e perfino alla spiritualità…tutto dal punto di vista del Corpo e della  sua consapevolezza.
    A parte le persone che sono abituate a quello che viene chiamato ‘approccio somatico’ e a chi ha già lavorato, ad esempio, con me nello Yoga, che sicuramente troveranno conferme e spunti intelligenti, questo libro farebbe bene anche e soprattutto a chi considera ‘corpo’ come ‘quella parte che sta appesa sotto la testa’.
    Come ben sappiamo, queste persone sono la maggioranza.
    All’interno di questo libro bello, c’è il mio capitolo preferito, una vera e propria ode al Guru interiore: parla – guarda un po’! – degli insegnanti guru.
    Quelli che ‘fanno’ i guru (e, anche qui, come purtroppo sappiamo, sono la maggioranza).
    Delinea chiaramente i pericoli dell’interazione con questi ‘personaggi’, e in modo gentile ma deciso anche le possibilità insite nell’insegnamento autentico come circolo virtuoso il quale, rispetto all’insegnamento-del-guru-farlocco:
    Per chi insegna, ciò significa che una maggiore esperienza porta a maggiore professionalità, che a sua volta fornisce una maggiore gratificazione, che favorisce una maggiore autostima. Grazie a questa dinamica il bisogno di sentirsi speciali o superiori si riduce e questo permette di sviluppare un maggiore senso di realtà, che a sua volta conduce a maggior libertà di espressione e alla realizzazione del proprio Sè.
    Specularmente, chi partecipa a un corso sviluppa più confidenza in ciò che sta apprendendo, la pratica diventa più gratificante e ciò produce una maggiore autostima e minore necessità di figure esterne con cui identificarsi.
    […] perché come si apprende determina quello che diventeremo molto più di ciò che si apprende”.

    Leggendolo, si scopre che può esserci molto più Yoga in un testo che nominerà lo yoga sì e no quattro volte in trecento pagine, piuttosto che in un libro ufficialmente dedicato allo Yoga che poi mostra solo sterili contorsionismi.

    Voglio condividere una parte del saluto conclusivo degli incontri di Yoga, con tutta la gratitudine che esiste:
    mani giunte alla fronte, per ringraziare il nostro Guru – persone, situazioni, occasioni, ostacoli – per gli insegnamenti ricevuti’

    A (tutti) i miei Guru
  • Hai mica detto ‘forza’?

    Hai mica detto ‘forza’?

    KeYoga - Intelligenza del Corpo

    Certe volte capitano email così: quando succede, mi si riempie la giornata di luce e di gratitudine per la generosità verso chi condivide, con te e con gli altri, il proprio punto di vista, la propria rielaborazione di un percorso fatto assieme (nello specifico, questo QUI). Perché, in fondo, il senso di un lavoro sta, anche e soprattutto, nella condivisione.

    Trovare la forza vera
    quella che non è fatica
    che casomai possiamo chiamare energia
    che non è ‘la nostra’ ma che ci connette con qualcosa di più ampio, più completo.
    Ho ritrovato le  tue parole e le ho dette a modo mio.
    Ti volevo ringraziare per questa esperienza, te e le persone che ho incontrato.
    Quando ero a Padova il clima invernale e la conseguente penuria di luce mi avevano fatto pensare che sarebbe stato difficile collegarmi col flusso, col presente in continuità. 
    Uno stato di benessere mi ha guidata, pervasa, anche quando ho lasciato la città.
    Ho avuto il timore di smarrirlo, il flusso, ma no: mi accompagna.  
    E, tornata a casa, ho avuto la meravigliosa sorpresa di percepire una nuova luce che, pian piano, allontana l’inverno.
    A presto, 
    Silvana Salsedo
  • Serpenti (ovvero della Coscienza)

    Serpenti (ovvero della Coscienza)

    Il serpente scuote 
    i suoi diamanti in acqua
    e ciò che amiamo 
    brilla e gioca con noi 


    Il serpente scuote 
    i suoi diamanti in acqua
    e ciò che amiamo
    brilla e scorre via 


    Il serpente scuote 
    i suoi diamanti in acqua
    H. Dull
    – L’hai visto se il serpente ce l’aveva, la testa triangolare?

    – Ma se sono scappato subito!
    – Sì, ma la forma della testa? Prova a far mente locale…Zio Google dice che, se non era triangolare, è solo una biscia.
    – Non lo so, non mi ricordo…
    – Comunque qui dice che in questa regione, statisticamente, ci sono poche vipere.
    – …
    – Che sono gli unici serpenti velenosi in Italia. Lo dice Internet, eh.
    – …

    L’ultima volta che mi è capitato ero in campagna e un serpente (la forma della cui testa, per onor di cronaca, è rimasta ignota), nascosto dentro un vecchio fienile, è balenato un nanosecondo nell’aprire il portone di legno.

    Un guizzo appena, si è immediatamente dileguato.
    La volta precedente, invece, l’incontro era stato forzato da un ragazzino indiano che mi aveva scoperchiato sotto il naso un apparentemente innocuo cesto in vimini, sbattendomi faccia a faccia con un povero cobra nero, arrotolato lì dentro. ‘Povero’ sono riuscita a pensarlo sopravvivendo a svariati infarti, dopo aver ingiunto al ragazzino di non azzardarsi mai più, che l’aorta non mi avrebbe retto altri cobra improvvisi, vivi dormienti o che.

    Me le ricordo tutte, le volte in cui ho incontrato serpenti.
    Mi delude rimanerne, sempre, leggermente spaventata (il breve episodio col cobra non rientra affatto nella categoria dei ‘leggermente’, è chiaro). 
    Incolpo la mia vita di cittadina che, animali domestici a parte, incrocia giusto piccioni e nutrie, ma so che c’è ben altro, riguardo ai serpenti.
    Loro, mi fregano sempre.
    Animali (e simboli) potentissimi, hanno su di me un fascino totale eppure, quando li incontro, mi fregano: rimango senza fiato, con questa curiosità che arriva quella frazione di secondo troppo tardi, quando ormai il serpente se n’è andato.

    Il mistero che sottendono è lì, esattamente dentro quel turbamento.
    Resto di stucco, ogni volta.

    Non sono sola, nel turbamento. 

    Perché i serpenti sono misteriosi, affascinanti e spaventosi per l’umanità intera, da sempre: le storie che li riguardano esistono ovunque, nelle mitologie, nei racconti, nelle fiabe, nei folclori.
    E  siccome le idee, quelle eterne e preziose, sono nelle reti tessute dai racconti e l’essenza di una storia antica arriva, trasversale ai secoli, incredibilmente dritta e precisa a parlarci esattamente di noi, qui ed adesso, è ripensando soprattutto a quei (poveri) cobra arrotolati nei vimini dei ragazzini a Varanasi che voglio raccontare i Naga: meravigliosi esseri semidivini, metà umani e metà serpenti, nell’Oriente più lontano.


    Naga, Serpenti nella mitologia indiana, Yoga e Mitologia, KeYoga
    Forti e bellissimi, hanno molti superpoteri: possono cambiare forma diventando completamente umani (o serpenti), il loro veleno è mortifero, hanno l’elisir dell’immortalità e il dono della guarigione.
    Portano una gemma incastonata al centro della testa (sulla cui forma, triangolare o meno, nessuno ovviamente si interroga) che è la panacea universale per curare qualsiasi malanno. 
    Questi gioielli permettono ai Naga di illuminare e sondare la profondità più oscura e impenetrabile.
    Popolano un regno subacqueo, incantato e meraviglioso, la cui capitale sotterranea, Bhogavati, significa ‘incantevole’ ed è governata dal Naga Vasuki, di cui abbiamo narrato QUI.
    Gli abitanti vivono in  spettacolari palazzi costruiti con pietre preziose.
    Sono i guardiani dei tesori  – oggetti dai poteri magici – nascosti in fondo agli oceani, ai laghi, ai fiumi; portano la pioggia, sono la fertilità.


    I Naga, dalle profondità ctonie dell’inconscio, sono la memoria più antica e arcaica e anche la nostra consapevolezza più radicata, più immediata. 
    Più potente.
    Quest’ambiguità, questo potere: come potrebbero non lasciar sgomenti?


    La saggezza è radicata in loro, fin dall’origine, dato che discendono dal veggente Kasyapa, uno dei rishi, i saggi delle origini, profondi conoscitori delle leggi degli Universi, temuti (e dunque tenuti in grande considerazione) dagli stessi Dei.
    Chi non desidera bellezza, ricchezza e saggezza? Ci sono vere e proprie dinastie regali in India e Indocina che fanno risalire il proprio sangue nobile dall’unione antica tra un essere umano e una Nagini, una serpentessa.

    Il riposo di Visnu, mitologia indiana, Yoga e Mitologia, KeYoga, Laura Voltolina
    La storia che meglio racconta l’eternità arcaica, fluida e acquatica dei Naga è quella di Ananta.
    E non è nemmeno una storia: è un’immagine.
    Nell’oceano di prima dell’inizio, senza sponde né fondo, galleggia il dio dormiente.
    È Visnu, il Conservatore della Vita, ma dorme e dunque non sa nulla: dell’oceano, della vita, di se stesso.
    Nulla esiste, ancora: c’è solo il sonno del dio addormentato.
    L’unica creatura sveglia, e dunque l’unica esistente, in quell’eternità prima della coscienza, è Sesha/ Ananta, il Naga, il serpente cosmico dalle mille teste.
    Infatti il dio galleggia coricato sul corpo del serpentone; mille teste vegliano il suo sonno.
    Un’immagine perenne come solo può esserlo un tempo la cui misura non esiste.
    L’inizio accade.
    Un suono, un ritmo: un tamburo.
    È Shiva, il Distruttore, che danza la sua danza cosmica.
    Nasce il tempo.
    Il battito.
    Il respiro.
    Ananta sente la vibrazione, corre un fremito tra le sue spire, sveglia il dio addormentato e, in quel preciso istante, dall’ombelico di Visnu esce un fiore di loto.
    Il fiore si schiude e al suo centro ecco Brahma, il dio dell’Inizio, con 4 volti rivolti alle 4 direzioni cardinali principali.
    Nasce lo spazio.
    In un istante, l’eternità diventa tempo, spazio, coscienza.
    L’universo ha inizio così.
    La nostra vita, ha inizio così.
    Ciò che resterà, dopo che quest’universo nuovo di zecca verrà consumato, sarà Sesha/Ananta, il serpente: Sesha significa  “la rimanenza”; l’altro suo nome, Ananta, significa infinito.
    La rimanenza infinita, l’arcaica saggezza, che ci porta a nascere, infinite volte, ad ogni respiro, ogni giorno, ogni vita.

    Quest’immagine mi lascia senza fiato.

    Mi fregano sempre, i serpenti…

  • Il figlio del monsone – Ganesha (prima parte)

    Il figlio del monsone – Ganesha (prima parte)

    Ganesha, storia delle divinità indiane, Yoga e Mitologia, KeYoga, Laura Voltolina

    Gli altri clienti occidentali nell’internet point di Varanasi si irrigidiscono, ci scambiamo occhiate perplesse e allora no, non è stata un’impressione solo mia.
    Un topolino, in un lampo, mi è proprio passato vicino e l’istinto di sollevare di scatto i piedi da terra ha avuto la meglio sulla nonchalance da viaggiatrice navigata con cui cerco (maldestramente) di mascherare lo stupore costante che vivo in India, dove il confine tra quello che vedi e ci credi, quello che vedi ma fai fatica a crederci e quello che vedi ed è totalmente incredibile, beh è impalpabile, fai confusione.

    Quel negozio minuscolo, con tastiere appiccicose e annessa rivendita di bibite e anacardi, brulica, innegabilmente, di topolini.
    Ganesha”, commenta serafica la proprietaria, che lì con marito, tre figli, i pc, le bibite, i sacchetti di anacardi e i topolini, ci vive, puntualizzando quanto sia assurdo il disgusto che una cosa normale come il passaggio del roditore ha evidentemente innescato in noi.
    In effetti, la signora ha ragione: Ganesha, il dio con la testa di elefante che rimuove gli ostacoli e benedice ogni inizio (che si tratti di gettare le fondamenta di un edificio, di un viaggio o di un rituale religioso), viene rappresentato sul dorso di un topolino. 
    Mi vergogno un po’ del mio scatto nervoso, da figlia dell’occidente, che magari l’ha offesa o, peggio ancora!, potrebbe aver offeso Ganesha, ma ogni volta che apparirà un topo, lì o ovunque, so che avrò un riflesso analogo e dunque mi metto in pace.
    Anche fuori dall’unica chiesa cattolica che mi è capitato di incrociare nel mio vagare per l’India c’era un microtempio dedicato a Ganesha, in cui i fedeli accendevano incensi prima di entrare e pregare davanti al crocefisso: la benedizione del dio-elefante va chiesta all’inizio, è l’incipit di qualsiasi cosa – compreso il rituale di una religione lontana dall’induismo. 
    Non fa una grinza.

    Storia di Ganesha, Yoga e Mitologia, KeYoga, Laura VoltolinaÈ una divinità talmente amata che esiste un numero incredibile di racconti che lo riguardano, sugli esordi in particolare; scelgo la storia più diffusa e divertente.
    Ganesha Charthurti è la grande festa annuale dedicata alla sua nascita; ci sono incappata senza averlo previsto, per una di quelle strane sincronicità che rendono la vita interessante.

    Così so, per averlo vissuto in prima persona, che la festa dura diversi giorni, che blocca il traffico delle città, che riempie le strade di gente che balla e canta e grida in centinaia di processioni coloratissime che portano rumorosamente a spasso effigi del dio in varie dimensioni, e che coincide con la fine del monsone.

    [come sia viaggiare in India nel periodo dei monsoni, beh, è un’altra storia. Basti sapere che l’esperienza conferma la validità delle indicazioni tradizionali dei saggi vagabondi: loro, nei mesi monsonici, a irrefutabile prova di saggezza certa, si fermavano]

    I monsoni sono attesi, inevitabili e, soprattutto, sono ambigui: vero che servono per nutrire l’agricoltura e dunque sono benedetti, ma sono pure un periodo infausto. 
    Tutto è umido e c’è fango ovunque.
    Appena le piogge iniziano a scemare, la terra si copre di verde e porta con sé suo figlio, colui che rimuoverà tutti gli ostacoli nel cammino verso il tempo dei raccolti.
    Quel figlio è, appunto, l’amato e potente Ganesha.
    I genitori di Ganesha sono Shiva e Parvati, e la loro storia d’amore è già stata narrata QUI.
    Parvati è l’energia della Vita, Shiva è il dio dello Yoga e della Danza, il Distruttore.

    [Una volta, un curioso mi ha obbiettato ‘Come, il tuo dio preferito è il Distruttore?’
    Ebbene, sì. L’energia di Shiva è quella che ci permette di allargare, se non distruggere, le scatolette mentali che ci limitano nella percezione della nostra Interezza. Alcuni le chiamerebbero, queste scatolette, ‘ego’]

    Comunque Shiva è una qualità energetica (da qui in poi: ‘divinità’) molto disponibile: se lo raggiungi.
    Non aspetta che tu stia diecimila anni su un piede solo in cima a una montagna, prima di manifestarsi.
    Certo, sta sprofondato in meditazione eoni ed eoni, ed è circondato dai suoi Gana, che sono schiere di creature spaventose, gli Hooligans del paradiso. 
    Fanno paura, i Gana, sono tanti e bruttini, e se ti avvicini a Shiva senza che il desiderio di abbattere i muri del tuo ego sia veramente profondo, allora ti lascerai spaventare. La guardia personale di Shiva avrà fatto il suo dovere, proteggendo la quiete del proprio signore. Se ti avvicini a Shiva con la dovuta sincerità e non avrai paura, i Gana non ti faranno niente e lui risponderà alla tua richiesta.
    Comunque Shiva e i Gana stanno praticamente sempre assieme, tranne quando lui è in meditazione.
    Parvati condivide la quotidianità, lassù sull’inaccessibile monte Kailash dove abitano, con Shiva (quando c’è) e coi Gana (tutto il tempo). 
    A lei, che assiste costantemente alle prove di fedeltà assoluta dei Gana per Shiva, piacerebbe molto avere qualcuno altrettanto devoto
    Inoltre la vita sul tetto del mondo, per quanto amabile nella sua ruvida semplicità, è solitaria. 
    Insomma, Parvati vuole un figlio
    E Shiva se ne sta a meditare nella foresta, o in una grotta irraggiungibile.
    Sicché lei, che è pur sempre a Dea, prende la curcuma che ha usato per strofinarsi la (divina) pelle dopo un bagno, modella un ragazzino e gli dà vita: finalmente ha qualcuno di totalmente suo, il figlio desiderato.
    Il fanciullo si chiama Vinyayaka, che suppergiù significa ‘senza padrone, cioè già dal nome è chiaro che la sua nascita è speciale, priva della collaborazione di un padre.
    Parvati piazza il fanciullo davanti all’entrata dei suoi alloggi e gli ordina di impedire l’accesso a chiunque.
    Quando Shiva ritorna alla grotta della Dea, è sorpreso di trovare un guardiano, mai visto prima, che non lo riconosce e non lo fa passare.
    Preservare la calma quando un ragazzino sconosciuto sbarra l’entrata di casa tua e, colmo dei colmi, proclama di essere figlio di tua moglie, è impossibile anche per Shiva.
    Non può finire bene.
    Il Dio ordina ai suoi Gana di sbarazzarsi del fanciullo.
    Nella lotta che segue il ragazzino sorprendentemente riempie di botte i Gana, così lo stesso Shiva, al colmo della rabbia, finisce per decapitare il povero Vinayaka. 

    Parvati però, adesso chi la sente?
    È furibonda, incontenibile, minaccia di distruggere gli universi e a Shiva risulta chiarissimo che non ci sarà più un solo istante di pace.
    Lei chiede, esige, pretende che Shiva le restituisca il figlio.

    Cosa fatta capo ha’, si dice, e vale anche nell’ipotesi di decapitazione. 
    Quando qualcosa è accaduto, è nel mondo, si può modificare, non cancellare.
    Nemmeno Shiva può.
  • L’Onda lunga della Luna (e dello Yoga)

    L’Onda lunga della Luna (e dello Yoga)

    Luna, Yoga per la Donna, Laura Voltolina

    Ai tempi, beh, c’era pochino, in giro.
    Le informazioni dovevi proprio andartele a cercare; le esperienze le facevi tutte sulla tua pelle (che, poi, le esperienze si facciano sempre e solo sulla propria pelle, per definizione, è una inevitabilità che ho constatato proprio in questa ricerca).

    Quando ho elaborato per la prima volta – dopo una vita di studio e sperimentazione personale –il percorso della Luna nel Pozzo, dedicato all’espressione del Femminile Corporeo fuori dai condizionamenti, non potevo che sviluppare qualcosa di autentico e originale, dunque.
    Anni dopo, sbam!, mille proposte, mille idee, mille attività.
    Ti piovono proprio addosso.
    Questo mi fa piacere, per me è bellissimo assistere all’allargarsi dell’interesse in un tema che ho così visceralmente a cuore.

    Un po’ come lo Yoga: 16 anni fa l’affermazione ‘insegno Yoga’ generava, quando andava bene, sguardi vacui o contriti ‘non arrivo a toccarmi la punta dei piedi’ , quando andava male, l’immancabile ‘ah, fai lo Yogurt?’.
    Adesso la reazione, quasi sempre, è ‘che stile di Yoga?’ [al netto della constatazione che  il mondo dello Yoga, negli ultimi tempi, richiama in effetti il circo (acrobati, maghi, clown e adorabili animali per ora domestici ma chissà, diamo tempo al tempo), il che innesca spesso e volentieri rabbiose polemiche interne, reazioni spazientite nei praticanti di lunga data e confusione in tutti gli altri.  Personalmente, polemizzare su ‘il mio stile è più yogico del tuo/di tutti gli altri’, o il tristemente immarcescibile ‘il mio maestro è migliore del tuo/di tutti gli altri’ – prodotti dell’inconfessato ‘io sono migliore (ovvero temo di essere peggiore) di te’ – mi pare un’inutile spreco di energie e, sotto sotto, testimonia un bel dispiegamento egoico, invisibile soltanto a chi, nella polemica, affonda].
    Di fatto io trovo irresistibile che la disciplina cui dedico la mia vita e il mio lavoro sia diffusa e conosciuta. Non posso farci nulla, mi vengono su sorrisi più che espressioni accigliate o sospirati ‘Shiva, dammi la forza’…

    Ecco, con la Luna nel Pozzo è stata un’escalation affine. 
    Solo che all’inizio le reazioni andavano da silenzi imbarazzati dall’evidente sottotitolo ‘caspita, una femminista odia-uomini, meglio stare alla larga’ a ‘ah, sì! Prendiamo un accendino e bruciamo i reggiseni!’.
    Alcune donne, curiose, hanno iniziato a partecipare, a praticare e a condividere, fuori dai preconcetti.
    Adesso, più o meno, l’ondata di interesse soprattutto sociale e culturale è fortunatamente più larga.
    Certo, molte idee e proposte che vedo in giro non mi suonano così originali, o approfondite, o ricche, ma va bene; di un’onda larga, grande, ancor più grande, abbiamo bisogno tutti, donne e uomini, e che quest’onda ampia contenga tutti gli inviti: c’è spazio per tutti.

    La Luna nel Pozzo ha una vita propria, ha esperienza di anni, si è arricchita ed è cresciuta coi contributi delle donne che hanno partecipato, delle loro luci, delle loro intuizioni, dei nostri scambi.
    Non è mai uguale a se stessa.
    Il lavoro che facciamo è sempre Corporeo, ché dal Corpo delle Donne non posso prescindere, io arrivo da anni – tanti – di Yoga e sono come gli animali (o come crediamo che gli animali siano): incapace di ‘sentire’ davvero una separazione tra Corpo, Mente, Emozioni, Anima o comunque vogliamo chiamare l’ineffabile.
    Dal Corpo che sperimenta e vive e si ascolta: è da da lì che arriva, ad esempio la scoperta di avere abitudini, magari ereditate da generazioni, a pensarci piccole, deboli, incapaci, non degne. E allora l’esperienza personale che emerge diventa anche sociale e culturale, e (anche, a volte) consapevolezza di una connivenza sottocutanea ai sistemi collettivi che schiacciano le donne.  Non si tratta mai di ‘chiacchiere’, insomma.
    Ciascun gruppo nel tempo ha rivelato una propria natura specifica, un proprio punto di vista, una propria ricchezza.

    Della Luna nel Pozzo amo lo svelamento degli Archetipi del Femminile, amo che siano incarnati nei Corpi, amo scoprire dalle condivisioni ciò che ciascuna ha trovato.
    Ogni volta che arriva il momento di guidare un nuovo cerchio di Donne curiose non sto nella pelle, chissà cosa troverò di ancora nuovo, ancora interessante, stavolta…non sono mai, mai rimasta delusa!

    con gratitudine, dunque, per tutte le Donne capaci di mettersi in gioco

  • una parola bellissima

    una parola bellissima

    tenersi per mano, Yoga, corsi Yoga, KeYoga, Laura Voltolina

    a chi ‘è la prima volta ma mi butto‘ e quel sincero entusiasmo, ancora ingiustificato, è un’onore,

    a chi ‘sono dieci anni, c’è mica un premio?‘ perché (ormai) sa benissimo che sono io a sentirmi premiata dalla bellezza della loro presenza, 

    a chi ‘non vedo l’ora di ricominciare‘ e non sa quanto mi è mancato, 

    a chi ‘e se faccio figuracce?‘ e dopo cinque minuti si è scordato i dubbi e sta in una concentrazione che nemmeno un monaco zen,

    a chi ‘è tanto tempo che non pratico‘ e dopo cinque minuti ha occhi bambini e il viso di chi ha ritrovato qualcosa di fondamentale,

    a chi ‘non so cosa riesco a fare stasera, eh, che non ho ancora finito le terapie per quel vecchio/recente trauma‘ e poi nemmeno si accorge della fluidità dei movimenti,

    a chi arriva in anticipo per un abbraccio e quattro chiacchiere e si accorge che anche altre dieci persone hanno pensato la stessa cosa e si sta lì a raccontarsi, da vecchi amici,

    a chi arriva in ritardo in punta dei piedi ma viene lo stesso, e si accorge che non disturba affatto, 

    a chi ha aspettato fuori da una porta recante il cartello ‘gruppo Yoga: aspettare qui’, in rispettoso silenzio, per mezz’ora, finché l’insegnante, ignara del cartello e a lezione già ampiamente iniziata, è andata a chiudere la porta e li ha trovati lì, coi tappetini arrotolati sotto il braccio, e, svelata la commedia degli errori, col gruppo intero, la lezione è iniziata per davvero.

    perché guidare la pratica di Yoga con voi, nei corsi, nei seminari, nei ritiri, nelle individuali è una gioia senza tempo, e giusto stamattina qualcuno mi ha fatto notare che sono tantissimi anni che insegno, e ancora esco dalle lezioni con voi migliore di com’ero quando sono entrata.
    e questo è un lusso prezioso più di ogni altro: qualcosa che mi sembra così enorme da non starci dentro, in quella parola lì, che però è anche una parola bellissima: grazie.

    (e, sì, riprendere la giostra dei corsi e dei workshops mi ha resa sentimentale. non preoccupatevi, non è contagioso)

  • Cambiare Vita – ovvero una Yogini su Legalcommunity

    Cambiare Vita – ovvero una Yogini su Legalcommunity

    KeYoga, Laura Voltolina, insegnante Yoga, Cambiare Vita
    disclaimer: con lo Yoga me la cavo, con la
    tecnologia ho (ampi) margini di miglioramento.
    Quindi non sono riuscita a raddrizzare
    la foto per il blog.  Nella foto: il tavolo quando era
    in progress 

    Antonella Jannelli è sensibile e appassionata; fa la freelance nel mondo del giornalismo, a tema legale e non, e contribuisce a rendere il mondo un posto migliore collaborando con alcune ONG del no profit. 
    Sul numero 34 del marzo scorso della rivista Legalcommunity è stata pubblicata l’intervista che Antonella mi ha fatto, all’interno della rubrica, tutta sua, dal titolo “Cambiare vita”; e per capire cosa ci fa una yogini all’interno di una rivista che si occupa di temi legali, è meglio leggerla…

    DA ASPIRANTE MAGISTRATO A FONDATRICE DI KEYOGA
    Dal diritto allo Yoga.
    Il passo non è breve, ma è quello che ha compiuto Laura Voltolina, 
    Laureata in giurisprudenza, ha lavorato come formatore e, successivamente, nell’area consulenza di una della più grandi multinazionali del settore.
    Poi ha deciso di utilizzare le sue capacità e il suo bagaglio professionale per creare una nuova attività, l’associazione KeYoga (keyoga.it), di cui è fondatrice e anima.
    Quando ci apre la porta, si vedono libri ovunque.
    Libri di viaggi, filosofia, cultura orientale.
    Libri studiati, sottolineati, vissuti, condivisi o ancora da leggere.
    Solo un gruppo sfugge a questo caos creativo, organizzato in quattro solide colonne: codici e manuali di diritto sono stati cristallizzati, per sempre, da un cocktail di colle viniliche e industriali, e sorreggono il suo nuovo piano di lavoro.

    In qualche modo ha voluto che il diritto continuasse a far parte della sua vita, anche se cristallizzato per sempre. Perché?
    Provengo da una famiglia di commercialisti, rigorosi e precisi, molto poco emotivi e indulgenti a idee non convenzionali o non strettamente legate al concreto.
    Quando, a 18 anni, dichiarai di volermi iscrivere a Filosofia, scese il gelo.
    Tre mesi dopo mi convinsi che, in fondo, avrei potuto realizzare i miei sogni anche studiando Giurisprudenza.
    Quali erano le sue motivazioni da studente di legge?
    Erano da poco stati uccisi Falcone e Borsellino e nell’aria si respirava il desiderio di agire, di rimettere le cose a posto. Per me diventare magistrato significava acquisire gli strumenti per intervenire nella vita delle persone, per migliorare la realtà.
    Cosa le è stato utile per la sua vita successiva?
    In primo luogo, un certo rigore e organizzazione. Oggi gestisco un’attività mia e, naturalmente, è importante programmare efficacemente tutto, inclusi risultati economici e adempimenti amministrativi.
    E poi?
    L’abitudine ad analizzare quello che vedo. “Dubitare sempre e verificare sempre”, mi dicevano, insegnandomi che le cose vanno cercate con curiosità, determinazione e buonsenso.
    Ancora oggi il buonsenso è una delle mie chiavi interpretative, anche quando costruisco percorsi Yoga per i miei allievi.
    Come ha deciso di seguire una nuova strada?
    Prima della laurea ho iniziato a praticare Yoga e, poco dopo, sono stata ammessa in un’importante scuola quadriennale per insegnanti Yoga, impegnativa quasi quanto l’università. La sera e nei weekend insegnavo e, di giorno, proseguivo il mio iniziale percorso professionale. Poi, cinque anni fa, do deciso che era il momento di dedicarmi totalmente alla mia passione.
    Come si vede ora?
    Spettinata e contenta di esserlo.

  • scoprirsi fluidi

    Il Corpo Fluido: seminario Yoga con Laura Voltolina, KeYogaDopo il seminario ho pensato spesso alla fluidità e a quanto siamo liquidi dentro, nel vero senso della parola. 

    Il cervello è sospeso nel liquido cerebrospinale (e mi piace pensare che anche i nostri pensieri siano immersi-sommersi) .. i liquidi dell’occhio ci permettono di vedere … i liquidi delle orecchie di sentire e stare in equilibrio…

    Pensandomi come un corpo fluido, le asana – specialmente quelle di equilibrio – sono non tanto più facili, quanto più lineari e unite

    E più lente, perché ho sempre la tendenza a correre, anche verso il compimento dell’asana perfetta
    Esploro meglio il limite, che non è più una linea netta e marcata ma diventa uno spazio sfumato che si muove e che puoi seguire e, sempre lentamente, spostare. Tipo una pennellata di acquerello, per rimanere in tema.

    Ma anche i pensieri cambiano, se mi concentro sulla loro fluidità. 

    Per un individuo con Vata molto squilibrato come me, il pensiero è aereo, veloce, quasi a raffica, spesso estenuante. 
    Trasformando i pensieri in acqua, o semplicemente immergendoli nel liquido del cervello, si placano da soli e diventano silenziosi, come succede ai suoni quando ti immergi in acqua con tutta la testa. 

    Sicuramente la fluidità ora fa maggiormente parte della mia pratica; del resto, non ho mai cercato di raggiungere la perfezione assoluta ma solamente la “mia” asana perfetta. Quella che non mi fa male, che potrei tenere a lungo senza affaticarmi e che mi permette di respirarci dentro con un respiro fluido. Se mi accorgo che non respiro, allora è il segnale che devo fare (fluidamente) un piccolo passo indietro.

    M.D.

  • la gente mormora, ovvero rassegna stampa (parte 2 – Percorsi Yoga)

    Percorsi Yoga - articolo Laura Voltolina - Insegnare Yoga in contesti speciali
    “Percorsi Yoga” è una bellissima rivista tematica, redatta e pubblicata dall’Associazione Nazionale Insegnanti Yoga (YANI). 
    Tempo fa mi è stato chiesto un breve scritto, pubblicato nel numero dedicato a “Lo Yoga nelle relazioni di aiuto” del luglio 2014, su alcune mie specifiche (e per me preziosissime) esperienze come insegnante di Yoga.
    Eccolo di seguito! 


    LO YOGA A MODO TUO

    “Te la sentiresti?”, mi chiede.

    “Certo! rispondo.
    Lei è la psichiatra del Ser.d (Servizio per le dipendenze) dell’ASL e collabora, in particolare, con una Comunità di recupero da dipendenze; la proposta è di insegnare Yoga proprio lì.
    A fianco dei corsi “classici” di Yoga per tutti, e oltre a seminari di approfondimento, da un paio d’anni insegno Yoga presso la Comunità San Francesco di Monselice (Padova) a un gruppo di persone in recupero da dipendenze da gioco d’azzardo, alcol e sostanze, che qui vengono seguiti anche nella delicata fase del reinserimento. Il corso di yoga si inserisce nel progetto di tutta l’équipe di sostegno composta da psichiatri, educatori e psicologi: di frequente gli operatori partecipano spontaneamente alle lezioni, lo spirito è stato da subito quello della più completa disponibilità ed è stata la psichiatra stessa a chiedere ai dirigenti della Comunità di introdurre lo Yoga per i residenti.
    Da più di tre anni guido anche un corso di Yoga settimanale presso la sede di Padova dell’AISM (Associazione Nazionale Sclerosi Multipla). Visto l’entusiasmo dei partecipanti e i feedback positivi sulla qualità della vita, all’AISM abbiamo tentato di dare maggiore spessore all’esperienza cercando il supporto delle strutture pubbliche per avviare uno studio in merito. Ci abbiamo provato, a suo tempo, contattando il Reparto di Neurologia dell’Ospedale, ma ci fu fatto notare che i medici del reparto erano impegnati in studi finanziati da case farmaceutiche sugli effetti di nuove molecole, e studiare gli effetti dello Yoga non solo non avrebbe goduto dello stesso sostegno economico, ma avrebbe potuto essere in controtendenza rispetto agli interessi in gioco. Le mie considerazioni di seguito sono quindi arricchite dai commenti dei partecipanti più che da evidenze scientifiche, impossibili da recuperare.
    E’ necessario però rispondere a una domanda implicita: perché scegliere di insegnare Yoga in situazioni così delicate?
    Perché credo, visceralmente, che lo Yoga possa davvero essere “per tutti”.
    Non avevo dubbi sul fatto che l’esperienza, per entrambi i gruppi, avrebbe potuto essere costruttiva se solo avessi trovato le chiavi giuste per proporre la pratica in modo adatto; ed ero curiosa di scoprire cosa avrei imparato, io, da questi due ambiti, così diversi tra loro, eppure simili per la caratteristica comune di essere speciali.
    In fondo,  in ogni classe di Yoga il gruppo è sempre nuovo, anche quando è composto dagli stessi partecipanti. 
    Ogni giorno siamo diversi; a guardar bene, siamo diversi ad ogni respiro.
    L’opportunità di seguire gruppi speciali permette ancor di più di accarezzare il continuo mutamento della vita.
    YOGA E SCLEROSI MULTIPLA
    Lo Yoga mi aiuta a riappropriarmi del mio corpo” (P., affetto da SM)
                          Entrano lentamente, sorridono e scambiano qualche parola, stanno sempre molto attenti ai propri passi. Appaiono e scompaiono sedie a rotelle, stampelle, tutori, come per una strana, perfida, magia.
    È un gruppo di circa quindici persone con SM diagnosticata sia nella forma recidivante – remittente, sia nella forma secondaria progressiva. La SM colpisce ciascuno in modo disparato, con intensità variabile e in distretti corporei differenti: è necessario tener conto dell’irregolarità dei sintomi quando si insegna  a persone tutte affette da SM.
    La flessibilità nell’offrire indicazioni è una caratteristica fondamentale dell’approccio con loro, perché ciascuno ha una gradazione di abilità diversa da quella che aveva anche solo la settimana precedente.
    Anche il fatto di praticare con partecipanti tutta affetti dalla stessa patologia permette loro di sentirsi immediatamente a proprio agio:
    Mi piace moltissimo e mi serve molto. Sto insieme a un gruppo di persone nella mia condizione e perciò non fanno domande fuori luogo come invece fa tantissima gente che non ci conosce” (S.)
                          Lo spazio utilizzato è la sala del Centro Diurno della sede dell’AISM: non si tratta di un centro Yoga attrezzato, gli strumenti a disposizione sono tappetini e coperte, le sedie della sala e la parete.
    Si lavora in cerchio, con i tappetini appoggiati al muro, sul quale il dorso può essere sostenuto liberando dalle tensioni e dalla fatica schiena e arti inferiori.
                         Trattandosi di persone che, per la stragrande maggioranza, hanno grosse difficoltà a deambulare, proporre una pratica in piedi, anche brevissima, risulterebbe stancante e frustrante. Le asana in piedi possono essere adattate per essere eseguite su una sedia.
    Ho preso più confidenza con gli esercizi sulla sedia, adesso trovo sollievo alle tensioni delle gambe e ho notato che durante la settimana ho molta più forza ed energia” (D.)
                        Tutti i movimenti che conducono a un’asana vengono scomposti in gesti più dettagliati, più piccoli, e ripetuti con lentezza maggiore, fino a diventare un unico movimento fluido e leggero.
    Lo Yoga non cura la SM ma insegna ad appoggiare l’attenzione sul corpo in modo costruttivo e privo di giudizio: il corpo, fonte di sofferenza e dolore, viene riscoperto anche come depositario di elementi di saggezza. La presenza mentale che si fonda sull’ascolto diventa la chiave per migliorare la capacità di concentrazione e contrastare nervosismo, ansia e depressione, elementi comprensibilmente correlati alla SM.
                      “Uso il respiro che ho imparato a Yoga anche quando devo fare qualche esame fastidioso (la risonanza magnetica), che diventa meno spaventoso” (S.)
                     “Mi manca ancora tanta coordinazione, anche se guardo meno a cosa fanno le altre persone e sto bene con me stessa. Finalmente riconosco i punti deboli, so che se non riesco con il piede sinistro, vado più piano e a volte immagino di fare il movimento. Anche se l’occhio sinistro non vede e si perde, dentro il mio cuore sento gli uccellini che cantano” (A.)
    YOGA IN COMUNITA’
    Tra una lezione e l’altra ho imparato a conoscere il mio corpo in tutti i dettagli, e non solo il corpo, ho scoperto anche la mente, dopo anni di sconvolgimento psicologico, con yoga sono riuscito anche a rilassare la mente” (P., ex tossicodipendente)
                   Spesso i singoli provengono da esperienze di dipendenze miste. Alcuni sono stati anche in altre comunità e frequentemente, oltre alla diagnosi di dipendenza, soffrono di ulteriori patologie psichiatriche.
    Non ha importanza sapere con precisione da quale disagio provenga ciascuno: sono lì, a provarci, lungo una strada scivolosa e in salita.
    Un gruppo così ha una grande difficoltà di concentrazione, è necessario riportare con pazienza la loro attenzione a al corpo, al respiro, cercare di lavorare sulle sensazioni nonostante alcuni partecipanti stiano assumendo farmaci pesanti che intorpidiscono la percezione. Si tratta di coinvolgere continuamente, per lasciare qualche traccia da seguire.
    I corpi sono contratti dal passato sregolato e sopportano ancora gli effetti a lungo termine delle sostanze assunte; spesso sono irrigiditi da crampi.
                  Nelle lezioni una progressione di movimenti dolci portano ad esplorare il respiro, giocare col ritmo e collegarlo alle diverse situazioni emotive. Allora si scopre il valore del silenzio: ai primi incontri faticano a stare in silenzio, in seguito lo cercano. Al termine delle lezioni c’è un piccolo momento più profondo, “il gioco dell’immobilità”. Loro ci stanno, dopo un po’ i tempi possono essere allungati e, forse, un seme germoglierà.
                  “La cosa che più mi è piaciuta è riuscire a lasciarmi andare e trovare quello stato di relax e fierezza che era tanto tempo che non sentivo, o forse non l’ho mai sentito. Non solo mi lasciavo andare ma anche provavo sensazioni di benessere che credo erano nascoste in me.” (M.)
                 Alcuni durante il soggiorno in Comunità iniziano una piccola pratica personale, diminuiscono l’utilizzo di anti infiammatori e ansiolitici.
    “Il corso di Yoga mi è servito molto per controllare la respirazione in momenti di ansia, di panico sotto stress. Vedo che la respirazione controllata riesce a far passare il momento e poi non torna (l’ansia).” (R.)
    UN LAVORO ENORMEMENTE PREZIOSO
              In Comunità a volte qualcuno passa a salutare, ha finito il percorso nel progetto, parte per la sua nuova avventura.
    All’AISM a volte qualcuno manca, una recidiva o un piede posato male tengono lontani dal gruppo per un po’.
    All’AISM sei felice quando tornano; in Comunità lo sei quando vanno.
    Quello che mi permettono entrambi i gruppi è enormemente prezioso: fare quello che so fare, cioè proporre strumenti, ed entrambi mi insegnano a staccarmi dal senso di impotenza, a sentire fiducia.
    Quello che resta è la gratitudine per questo fluire, feroce o dolce, comunque vitale.
    Laura Voltolina

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