Autore: Laura

  • Riluttante (all’ansia)

    La poltrona sarebbe stata anche comoda ma, lì, ero legata, avevo elettrodi appiccicati alla testa, al torace e alle dita delle mani: i due camici bianchi in brevi mosse austere avevano messo sotto controllo le mie reazioni fisiologiche.
    Non era esattamente la macchina della verità, anche se una verità forte, quella volta lì, è emersa prepotente: questo è infatti il racconto di come, una strana giornata di mille anni fa, abbia scoperto (mio malgrado) il vero potere del respiro quadrato.

    Appena legata, la domanda interiore e irrimediabilmente tardiva, “perché sono qui?!?”, era già un mantra.
    Se il motivo mi fosse ancora stato chiaro, le cose forse sarebbero andate diversamente.
    Ero lì, frugata nei recessi delle mie reazioni fisiologiche, per soldi: la farmaceutica cercava ‘volontari sani’ per la fase conclusiva della sperimentazione di un medicinale contro l’ansia.
    Superati i test preliminari cui, appunto, mi stavo sottoponendo, sarei stata retribuita per partecipare alla vera e propria sperimentazione: mi era ingenuamente sembrato un modo come un altro per guadagnarmi la retta dell’università.
    Ma, esame dopo esame per arrivare a capire se sarei stata della partita, ero sempre più pentita, la motivazione economica sfumava e cercavo d’istinto le uscite di sicurezza.

    Per essere certi della mia inclinazione all’ansia, l’ansia dovevano indurmela, misurarla e, se la quantificazione fosse risultata apprezzabile, sarei passata al livello successivo; per me la cosa importante era stabilizzare un conto in banca da studentessa che oscillava paurosamente.
    L’unico mio compito, lì su quella poltrona, era respirare.
    Da una bombola, anzi due, in sequenza: una con aria-in-scatola-normale, l’altra con aria-addizionata-di-anidride-carbonica, aria ‘gassata’ in pratica. 
    Naturalmente ignoravo in quale bombola fosse l’aria normale e in quale l’aria gassata.
    Pare assodato che un minor apporto di ossigeno causi reazioni d’ansia in chiunque, ed io ero lì perché quelle che avrei spontaneamente avuto fossero misurate e catalogate.
    Fino a quel momento me l’ero cavata bene; mi ero stoicamente sottoposta a tutti i controlli medici, mi ero lasciata mettere gli elettrodi e, anche se la baldanza disinvolta che sentivo all’arrivo si era totalmente dissolta, stavo riuscendo a mantenere un contegno perlomeno dignitoso. 
    Andò abbastanza bene anche quando mi misero il boccaglio della prima bombola.
    La cosa diventò drasticamente difficile all’improvviso, quando un’innocente molletta da nuoto sincronizzato mi fu piazzata sulle narici.

    Il mio unico attacco d’ansia l’ho avuto proprio lì, e nemmeno avevo iniziato il test. 
    Saranno stati pochi secondi. Ma la concezione del tempo, dello spazio, della presenza dei camici bianchi – professionalmente gentili e distaccati – si erano liquefatte in una paura folle.
    Fatto sta che i camici bianchi, invece, c’erano eccome; quell’ansia preliminare lasciava presagire un roseo futuro da cavia per la sottoscritta: mi tolsero incautamente la molletta dal naso per meno di un minuto, proprio mentre stavo per mettermi a urlare.
    A me, non occorreva di più.
    Quel minuto cambiò le sorti del mio conto in banca e del mio impegno nella sperimentazione farmaceutica; il mio nome, che si sappia, non è tra quelli di coloro che hanno contribuito al progresso della ricerca medicinale.

    Rimessa la molletta al naso, inizia il primo round di respirazione in scatola. Finito quello, un poco di intervallo e via col secondo round.
    Mi risiedo sulla poltrona, mi lascio legare, connettere agli elettrodi, alla bombola e, al momento della fatidica molletta, resto tranquilla.
    Nessuna agitazione, niente ansia.
    Respiro, diligente, senza notare la perplessità che traspira in aloni opachi attraverso la gentilezza professionale dei camici bianchi.
    Al termine mi slegano e all’ultimo elettrodo staccato slitto immediatamente dallo status di ‘cavia’ a quello di ‘soggetto con cui interloquire’, e infatti mi chiedono quando, secondo me, avrei respirato l’aria gassata.
    Beh, la prima volta, ovviamente“.
    Ovviamente un corno” (sicuramente non con queste parole, ma il tono, sì, una crepa di umanità nell’algido distacco ambulatoriale). 
    Dice “non solo l’aria gassata era nella seconda bombola e tu non ne hai avuto percezione, ma i dati raccolti dicono che, fisiologicamente, per il tuo organismo, stavi respirando aria normale.”
    Dice “se non lo sapessi, perché ce l’ho messa io stesso l’aria gassata nella seconda bombola, mi avresti convinto, e basterebbero pochi altri come te per buttare tre anni di sperimentazioni. Ma come hai fatto?

    Eh, già, come ho fatto

    Ho respirato, che tanto non avevo altro da fare.
    Ma d’istinto mi si è attivata una respirazione controllata, si chiama Pranayama nello Yoga.
    Se ci avessi pensato, naturalmente non sarebbe andata così: ero lì con una motivazione economica chiara e lampante.
    Invece, assaggiata appena l’ansia, una ribellione interiore ha messo in campo l’antidoto, il respiro quadrato, e l’unico risultato fu poi leggere di sfuggita, sul fascicolo che mi riguardava, la dicitura “resistente all’ansia”.
    Diciamo la verità, essere legati a una poltrona e ridotti a cavie non è esattamente la situazione ottimale per un Pranayama.
    Eppure è accaduto, e il Pranayama ha imbrogliato tutti: è venuto fuori un ritmo di respiro, un ritmo facile.
    Per quaranta minuti ogni round, se ricordo bene.
    E nessuno, nemmeno il mio cuore, nemmeno il mio cervello, si è accorto dell’aria gassata che entrava…il vero antidoto all’ansia, alla faccia delle farmaceutiche (e del mio conto in banca).
    * immagine di Duy Huynh

  • Il respiro quadrato – la tecnica

    Si chiama respirazione quadrata e un motivo c’è.


    Postura: la prima cosa è trovarne una che permetta di sentire la colonna vertebrale correttamente, ma comodamente, distesa e allineata
    Mollare le tensioni alla mascella, agli occhi, al volto, che, oltre ad accomunare la nostra espressione a quella di un fico rinsecchito, bloccano la sensazione della gola aperta e inchiodano la percezione del respiro. 
    Allargare la lingua in bocca.

    Prima di iniziare: a me piace immaginare bene il quadrato, davanti a me, ne percorro il perimetro con gli occhi della mente.
    Quattro fasi del respiro (inspiro – trattengo a polmoni pieni – espiro – trattengo a polmoni vuoti), una per ciascun lato del mio quadrato immaginato.
    Che, essendo quadrato, guarda un po’ ha quattro lati e quattro angoli, uguali tra loro.
    Ciascuna fase del respiro ha quindi la stessa durata delle altre.

    Inizio: svuoto i polmoni. Il punto zero è sempre a polmoni vuoti e, da lì, posso cominciare.

    Il ritmo: conto i battiti del cuore
    – Inspiro per sette battiti (ad esempio, eh!), 
    – trattengo per altri sette, 
    – espiro sempre per la durata di sette battiti, 
    – trattengo a vuoto per sette….
    Al primo quadrato i battiti del cuore non sono regolari nelle diverse fasi; rallentano in espirazione, accelerano nei trattenimenti. 
    Al secondo giro sul mio quadrato, il cuore si è già adattato, il ritmo è regolare, pacifico.
    Ma si possono contare i tempi anche senza contare i battiti, basta un conto mentale per assicurarsi che i lati del quadrato siano in sintonia. Tra l’altro la durata dei tempi, quando tutto è quieto, si allunga, è come se i quadrati di respiro diventassero più grandi
    Come se il respiro creasse spazio…e ci si accorge che il respiro esiste già, da sempre, è lì e accade e non serve altro.  
    Sboccia l’autocontrollo, come un fiore, contraddizione in termini eppure così vero!

    Il segreto, è il ritmo.

    E’ semplice, è lasensazione di poterlo continuare all’infinito, senza stanchezza: infatti il primo accenno di fatica significa che il ritmo non è più comodo, allora si lascia immediatamente che il respiro si accomodi meglio, naturalmente, come vuole. 
    Si può invertire il verso in cui si percorre il quadrato ad ogni ciclo, alternando cicli in senso orario a cicli in senso antiorario; questo richiede attenzione e ci si distrae meno facilmente.

    A cosa serve il respiro quadrato?
    Calma l’ansia, porta equilibrio e centratura: QUI una piccola storia personale.
    Per alcune persone il trattenimento a polmoni vuoti in particolare risulta sgradevole. Come fare, allora?
    Beh, c’è un’altra facilissima tecnica di respirazione che viene in soccorso di tutti, ma proprio tutti tutti!
    …a presto!

    * purtroppo non posso risalire all’autore/autrice dell’immagine, me ne scuso.
  • (metterci) la faccia

    “Taglia”, dico.


    Nuda e cruda, la voglio.
    La verità.
    L’autenticità.
    Glielo dico che ho ancora lo shampoo addosso, mentre mi lava i capelli. “Quanto?”
    “Molto”.
    Ci sono specchi dappertutto, qui dentro: le donne controllano il risultato del suo lavoro, sembra che si guardino con gli occhi della gente fuori dalla vetrata del negozio, di chi cammina sul marciapiede. Io mi guardo coi miei occhi, solo quelli, tanto anche se volessi non ci riuscirei a mettermi fuori, sul marciapiede, e osservarmi da lì.
    Voglio la mia faccia, i lineamenti del viso, così come sono. E se il mondo deve guardarmi, che possa vedermi dritto, senza cornici.

    Quand’ero piccola, mia mamma mi pettinava.
    Aveva sempre fretta, era di corsa.
    Mi prendeva, e mi pettinava. Con quei pettini, non so se esitano ancora perché non ne ho più visti, quei pettini con denti larghi da un lato e più stretti dall’altro, fatti apposta per sciogliere i nodi piano, con dolcezza, prima i più grossi, poi i più piccini.
    Solo che lei aveva fretta, e non faceva piano.
    Solo che io sono riccia.
    Chi ha capelli ricci mi capisce di sicuro: venire pettinata era una tortura. Mi colavano lacrime lungo le guance, fino al mento e io non sapevo trattenerle.
    Era il momento peggiore della giornata.

    “Perché non ti pettini? Non ti metti in ordine?”
    I boccoli scuri mi incorniciano il viso, sempre stralunati. Me li taglio da sola, che tanto sono ricci e nessuno si accorge se sono irregolari.
    “I capelli ricci non si pettinano, mamma”.
    Imperterrita, ogni volta che mi vede, la prima cosa che dice mentre sono ancora sulla porta è sempre quella.
    “Perché non ti pettini?”. Lo ripete come un mantra.
    Ripenso alla bimba con le lacrime lungo le guance e mi arrendo: te lo devo proprio dimostrare, perché non mi pettino.
    Così vado nel suo bagno e cerco il pettine. Ovviamente lo trovo, i tempi sono cambiati e adesso ha solo denti a distanze omogenee.
    Lo prendo e piano, dolcemente, mi pettino. Passo i ricci uno alla volta, con cura.
    Ci vuol pazienza, quando arrivo alla nuca ho le braccia stanche e pesanti.
    “Il pranzo si raffredda! Cosa combini?!”
    Arrivo a tavola coi capelli pettinati e l’aria trionfante di chi ha corretto un errore antico.
    “Oddio, ma che hai fatto?”.
    Eccomi appena uscita dal tunnel del vento, la testa completamente elettrizzata, pettinata e vittoriosa: ho finalmente messo la parola fine ad anni e anni della stessa domanda, reiterata, ripetuta, ribattuta, una goccia cinese eterna, sicura come la notte dopo il tramonto.
    Quello che da bambina non sapevo fare.

    “Perché non ti pettini?” Mi apre la porta sorridendo.
    Non ricorda il tunnel del vento, forse, ma è ancora troppo giovane per l’Alzheimer.
    Mi scrollo di dosso la domanda. Mi arrendo, stavolta sul serio. Non mi pettino, è un dato di fatto e i fatti non hanno bisogno dell’approvazione di nessuno, nemmeno della sua.

    Ci ho provato.
    Ci ho provato a pettinarmi, a stare in ordine.
    Mi sono pettinata, e mi sono laureata in giurisprudenza.
    Mi sono pettinata, e ho lavorato in azienda.
    Ma i miei ricci non si pettinano.
    La verità è questa.

    Gradualmente ho guardato in faccia la mia faccia vera, e ho visto le lacrime di tutti i pettini che mi ero lasciata imporre.
    Ci ho messo del tempo per trovarmi e non sempre mi sento intera, ma mi alleno ad essere autentica.
    Non perché dico quello che penso.
    La verità è oltre, o forse prima, è accorgersi delle maschere che ho addosso, messe lì chissà quando e rimaste appiccicate, a soffocare la spontaneità, a sprecare vita.
    Autenticità è toglierle, giorno dopo giorno.
    Incarnare la propria verità è un dato di fatto e i fatti, appunto, non hanno bisogno dell’approvazione di nessuno.

    Ero all’università quando lo Yoga mi ha trovata, mi ha attecchito dentro e ha messo giù una radice così profonda che non so proprio dove arrivi e nemmeno me lo chiedo.
    Essere colta dallo Yoga mi ha mostrato che i nodi venivano da quell’abitudine sottopelle a sentirmi, in fondo, sempre spettinata, sempre controcorrente, anche se non potevo, non potevo proprio pettinarmi e vivere una vita che non sentivo appartenermi.
    Ho lasciato il lavoro senza rimpianti perché non mi somigliava: e io, per somigliare a quel lavoro per cui provavo comunque interesse, mi dovevo mascherare. “Lo facciamo tutti”, sospirava con rassegnazione la mia amica e collega.
    Forse sì, ma diversamente da altri ho bisogno di poterla vedere bene, la mia faccia.

    “Taglia”, ho detto.
    Erano anni che mi arrangiavo i capelli da sola, ma non bastavano più i ricci stralunati.
    Volevo andare alla radice.
    Allora ha tagliato, molto corto.

    Adesso la mia faccia è nitida.
    Quando non mi sento in armonia passo le dita sulla testa, sento lo spessore minimo dei capelli e tiro un respiro di sollievo. Guardo agli anni trascorsi a pettinarmi con un pettine a denti sempre più larghi, penso a tutto il tempo e le lacrime che ci ho messo e non rinuncerei mai alla mia faccia, adesso che ce l’ho.

    A Ferragosto la piazza in cui abito si riempie di migliaia di persone che vengono da tutta la provincia per vedere i fuochi d’artificio. È un carnaio impensabile.
    Sono rientrata in città giusto alla fine dello spettacolo, quando l’oceano umano si muove compatto come il cemento verso gli sbocchi della piazza, verso casa propria.
    Era quasi impossibile fendere la marea umana.
    Ero in senso opposto: loro venivano via, io stavo arrivando.
    Arrancavamo tutti, loro e io, in direzioni contrarie.
    Un signore anziano che, come tutti, avanzava lento, irritato dall’ostacolo che rappresentavo sul suo cammino, mi ha apostrofata furente:
    “Signorina, guai ad andare controcorrente!”
    Gli ho sorriso,
    “Lo dice lei!”.

  • uscita (fuga?)



    “Gatto del Cheshire – chiese Alice – mi diresti per favore che strada devo prendere per andarmene di qui?”

    “Dipende molto da dove vuoi andare” rispose il Gatto.


    “Non mi importa molto il dove”, disse Alice.


    “Allora non importa quale strada prendi” rispose il Gatto.

    Attraverso lo specchio – Lewis Carroll
  • tutto cambia

    “ciò che è cambiato ieri
    di nuovo cambierà domani
    così come cambio io
    in questa terra lontana”

    mercedes sosa
    (il resto della canzone è qui)

    vigilia di Natale.
    un anno fa era vigilia d’India.
    e ora la nostalgia d’India è perfino assenza di quello zaino sempre troppo ingombrabte o del rumore assordante, continuo, che toglieva fiato e pensieri, ovunque (tranne che sulla montagna, ovvio).

    mancanza che è diventata altro: oggi, la mia India è qui.


  • tutto scorre

    grazie, antonella.

    “ho fatto un giro in cerca di risposte. 
    è difficile essere giusti, nei confronti di se stessi e degli altri, vivere una vita giusta. 
    il tempo è sempre troppo poco, anche se a volte sembra passare lento e inutile. 
    il giorno in cui non ci sarà più tempo non vorrei guardarmi indietro e rendermi conto di avere sprecato quello a mia disposizione.
    per questo ho paura di sbagliare.
    non sono le cose grandi a fare grande la vita, spesso sono i momenti piccoli, gli stati inafferrabili in cui si è in armonia. 
    quando non c’è differenza tra divino e umano.
    ho così tante domande e non sempre dico tutto quello che vorrei dire. 
    la paura mi frena, anche se mi piacerebbe aprire le porte e lasciare fluire parole e anima. 
    ma ho paura e non sono così sicura di voler affrontare altre ere post-atomiche.
    in un modo o nell’altro cerchiamo tutti la stessa cosa. 
    vite diverse, modi e pensieri diversi nel tentativo estremo di essere riconosciuti e accettati, di essere amati per quello che siamo, con le nostre carenze, mancanze, contraddizioni, incapacità e paure.
    semplice, così tanto da sembrare utopistico, ingenuo e infantile.
    però è tutto lì.
    se gettassimo le nostre maschere e dichiarassimo a noi stessi quello che vogliamo, se non avessimo pudore nel dimostrare ciò che siamo, se non avessimo bisogno di mettere il brutto nel bello per schermarci, se smettessimo di mostrare i denti per avvisare l’altro che siamo in grado di fare male, se riuscissimo ad abbattere i confini che abbiamo fissato, saremmo più liberi e più forti perché non avremmo più bisogno di fingerci tali.
    ognuno racconta a se stesso le bugie che più gli sono funzionali, che meglio si adattano a  un’immagine autorassicurante di se stesso. 
    nel tempo queste bugie inconsapevoli diventano insostenibili e per essere raccontate richiedono sempre più energia e rabbia, provocando dolore. Il rischio è la realizzazione del nostro personaggio a discapito della persona.
    ogni limitazione al proprio bisogno di amore, soprattutto se imposta dall’interno a salvaguardia dell’armatura che goffamente ci fa andare avanti, è una condanna all’insoddisfazione, alla solitudine profonda e all’infelicità.
    ogni atteggiamento fittizio, acquisito, pensato, premeditato, cinico, consapevole o meno che sia, è uno spreco di tempo e di vita, una deviazione dalla propria realizzazione di essere umano.
    siamo fluidi come l’acqua che si espande naturalmente ovunque, siamo uniti agli altri, nati per condividere, per scorrere liberi e crescere.”
  • donne di saggezza

    Piero della Francesca, Polittico della Misericordia, particolare. Sansepolcro, Museo Civico


    “ti guarda dritto in faccia.
    è forte, ha fiducia in se stessa, non è affatto compiacente  e nemmeno arrabbiata.
    lì c’è amore, c’è compassione, c’è dignità.
    è una Signora potente.”


    Tenzin Palmo, Cave in the snow



    solo una donna speciale, che incarna la ricerca spirituale al femminile, avrebbe potuto descriverla così.


    grazie alle parole di Tenzin Palmo e, soprattutto, grazie ad Ivana, che le ha guidate nelle mie mani.


  • la nostra più grande paura

    La nostra paura più grande non è di essere inadeguati. 
    La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre misura.


    È la nostra Luce, non la nostra Ombra, ciò che più ci spaventa.
    Ci domandiamo: chi sono io per essere brillante, splendido, ricco di talento, favoloso?
    In realtà, chi siamo, noi, per non esserlo?
    Siamo figli di Dio. Renderci piccoli non serve al Mondo.
    Non vi è nulla di illuminante nel rimpicciolirsi perché gli altri attorno a noi non si sentano insicuri. Noi siamo nati per rendere manifesta la gloria di Dio che è dentro di noi.
    Non è soltanto in alcuni di noi; è in tutti.
    Facendo brillare la nostra Luce, inconsciamente diamo agli altri il permesso di fare lo stesso.
    Mentre noi ci liberiamo della nostra paura, la nostra presenza automaticamente libera gli altri.


    Marianne Williamson


  • mito dei miti: Nuwa, la dea Serpentessa

    Amo le storie.
    Amo, soprattutto, le storie che mettono l’inizio in parole, il “mito dei miti”, per la particolare tenerezza che innesca scoprire come è stata vista la nascita del cosmo. 

    Questa versione in particolare del mito dei miti è una delle mie preferite.
    Sarà che amo i racconti con le Dee.
    Sarà che la protagonista è una dea metà serpente e, come alcuni sanno, le Serepentesse mi sono particolarmente simpatiche.
    Sarà che la mia naturale inclinazione al disordine mi porta ad ammirare chi, come la dea Nuwa, crea ordinando e (ri)ordinando protegge. 

    Capita spesso, infatti, nei miti dei miti, che lo stato di partenza sia un gran minestrone di cielo e terra, un caos di indefinitezza, elementi totalmente mescolati, compenetrati, senza definizioni né confini. Di solito, a un certo punto qualcuno decide di separarli.
    In questa storia la decisione di accendere l’interruttore dell’Universo viene presa proprio da Nuwa, dal corpo serpentino: si mette d’impegno e piazza delle belle colonne a sostenere la volta cosmica per staccare il cielo dalla terra, mette ordine nell’indifferenziato, crea il mondo e lo riempie. 
    E all’inizio è una gran fatica! Ma vinta l’inerzia e messo in moto il mondo, tutto diventa più leggero e divertente: montagne, laghi, fiumi, mari, animali le vengono di getto, facilmente. 
    E giocando si sorprende a guardare la propria immagine, riflessa su uno specchio d’acqua…Nuwa, che per fortuna del genere umano non è Narciso, anziché cascarci (dentro), decide di riprodurre quello che ha visto e che l’ha così colpita, usando l’argilla del fondo limaccioso. 
    In questo modo lieve crea uomini e donne, e regala alle proprie creature due gambe, adatte a muoverle in quel mondo nuovo di zecca.
    insegna loro a riprodursi, per popolarlo, che il nuovo mondo è vasto.



    Come in quasi tutte le storie che si rispettino, anche qui c’è una guerra.
    Si tratta di una lotta violentissima, devastante, tra demoni del mondo sotterraneo; così sanguinosa da far tremare la terra intera. Da far crollare il cosmo stesso, da far tentennare le colonne che reggono tutti i cieli, quelle colonne che Nuwa, l’ordinata, aveva costruito con grande pazienza.
    Pare che il cielo si schianti sulla terra, e la terra non può sopportarne il peso, e, dalle sue profondità ctonie  materializza un terribile drago nero che distrugge tutto ciò che incontra.
    Ogni cosa impazzisce: gli animali, terrorizzati, fanno strage di uomini. 
    Chi può salvare la situazione? Solo la dea dal corpo di Serpentessa, colei che ha creato e ordinato, potrà, ri-ordinando, pacificare.
    E tutto si ripete: Nuwa si rimette al lavoro, per ricostruire i pilastri che tengono il cosmo organizzato; tira su il cielo dai quattro angoli come se mettesse ad asciugare un enorme lenzuolo azzurro.
    Sconfigge da sola il drago, e placa gli animali impazziti.
    Ogni cosa al proprio posto.
    Quasi.
    Infatti la dea, esausta, si stende a terra per non rialzarsi più; il suo corpo diventa un’enorme catena montuosa della Cina, ricordo del tempo antico in cui la dea Serpentessa aveva tirato fuori il cosmo dal disordine primordiale.
    Mettendo al mondo, il Mondo.

    * la versione di questo mito su cui ho basato il racconto viene da “Le cento grandi divinità” di Stefano Caso 

  • tana!

    A volte accade di essere trovati, come se una mano enorme ci raccogliesse.
    Il tempo si inverte e ci si trova a bere dell’acqua freschissima prima ancora di rendersi conto di avere una sete terribile.
    Spesso sono stata (rac)colta, in questo modo inaspettato.
    Settimane fa mi hanno trovata i colori liquidi di acquerello, donato da una persona speciale, che, dopo aver partecipato ad un incontro di approfondimento sul simbolo dell’Albero, ha messo su carta la sua sensazione: quel disegno, quei colori e quell’immagine sono esattamente lo specchio di una qualità sottile che non avrei mai saputo rappresentare in modo più appropriato.

    Alcuni mesi fa mi hanno scovata gli occhi limpidi di una giovane donna, che gira sempre accompagnata da un cane bianco grosso e gentile, ed ha il cuore grande come le montagne del Sudamerica. La sua acutezza mi ha regalato il soprannome più divertente che abbia mai avuto (no, non lo scrivo!).
    Dopo lo sguardo della donna, sono arrivate, dono dal cielo, le parole che un uomo ha scritto con amore autentico per la tradizione spirituale di un luogo a dodicimila chilometri da casa sua. Tra le sue parole, alcune risuonavano con altre, incontrate nel mio cammino di cercatrice lungo una strada antica.
    Dopo lo sguardo, dopo le parole, sono giunti gli occhi, incredibilmente puliti, di un gruppo di persone molto diverse tra loro, ma tutte disponibili a mettersi in gioco nell’incontro tra due tradizioni spirituali. Alcuni hanno valicato confini, per partecipare, alcuni hanno cercato alloggio, altri hanno faticosamente sgusciato dalle incombenze due interi giorni, altri ancora hanno zippato gli impegni, per essere presenti il più possibile.

    Oggi sono stata, di nuovo, trovata da un’immagine. Si tratta di “matrimonio in perfetto equilibrio”, giunta in regalo, con la stupefacente sincronicità che da sempre contraddistingue gli scambi con Giacomo Belcari, geniale autore.


    Grazie a chi mi ha scovata, negli anni, nei luoghi più curiosi, attraverso o nonostante le coincidenze più strane che la Vita ha messo sulla mappa.

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