Autore: Laura

  • definizioni

    “troppe definizioni annoiano la Verità” (cit.)

    mettersi in contatto con le “viscere” e seguire il suggerimento che proviene dall’interno.
    le definizioni, le filosofie, le elucubrazioni su quello che si ritiene oggettivo sono noiose per tutti, Verità compresa…
    ché, oltretutto, è raro, l’”oggettivo”: allora rivalutare il “soggettivo”, l’ascolto interiore, è un buon proposito per ciascun giorno.



  • latitudine senza terra?

    Walker (Tsai Ming-liang, 2012) from vanslon on Vimeo.

    mi piace tanto stare nei suoi passi, nella sua dimensione senza spazio, nella consapevolezza estrema che lascia solo punti di riferimento interni.

    non gli importa “dove”, gli importa “come”: questa è la terra che lo orienta nel suo viaggiare.

    allora penso che, in effetti, anche io ce l’ho, una terra che conduce le mie latitudini.
    grazie a quella terra visibile mi permetto il lusso di perdermi, di togliere “certezze” (sennò diventano gabbie), ché il “come” è davvero più importante del “dove”.
    la terra che mi orienta sono le persone che amo e che mi amano; sono le “viscere” che ho imparato ad ascoltare in maniera sempre più imprescindibile nello Yoga; è viaggiare la Vita con la fiducia, cieca come solo la vera fiducia può essere, che in fondo la Vita ha sempre, sempre ragione, quando è facile e quando è faticosa, quando è leggera e quando tutto sembra bloccarsi.

    appoggio lo sguardo lungo l’argine del fiume che passa vicino alla casa in cui vivo ora e mi aspetto di vedere la figura rossa del “walker”, immobile nel suo viaggiare.

  • perdersi


    “perdersi è l’unico modo per trovare un posto che sia introvabile. altrimenti chiunque saprebbe dove trovarlo” 


    è la frase di un blockbuster, poco intellettuale, uno di quei film che ti riempiono gli occhi e svuotano il cervello.
    a volte ci sono più verità in un dialogo de “Pirati dei Caraibi” che in tonnellate di chiacchiere filosofiche.


  • le babbucce di Abu Kassem (ovvero a volte ritornano)

    Questa storia inizia a Bagdad.

    Non la Bagdad di oggi, tristemente sventrata da anni di guerra, ma quella delle Mille e una notte, crocevia di piste che attraversano il deserto, la città più grande e ricca del tempo.
    In questa città da favola vive Abu Kassem.
    è un mercante, Abu Kassem, un ricchissimo mercante tirchio: Paperon de’ Paperoni in salsa mediorientale.
    Emblema della sua leggendaria taccagneria sono le sue babbucce vecchie, sporche, logore e rattoppate, riconoscibili da chiunque tra mille altre. Perfino il più cencioso dei mendicanti si vergognerebbe di andare in giro con quegli orrori ai piedi!
    Quando gli si fa notare quanto siano malridotte le sue babbucce, Abu Kassem risponde, invariabilmente, che non si butta via qualcosa solo perché un po’ lisa.

    Questa storia inizia a Bagdad, dicevo, nel giorno in cui Abu Kassem conclude l’affare della sua vita: compra da un mercante fallito una partita di boccette di cristallo e una gran quantità di preziosissimo olio di rosa: prevede guadagni enormi dalla vendita delle singole ampolle riempite di olio.
    Decide allora di festeggiare; l’usanza di Bagdad vorrebbe che chi conclude un buon affare offra un banchetto a tutti gli amici ma Abu Kassem non ci pensa nemmeno, a far mangiare della gente a ufo sulle sue spalle!
    Festeggia allora concedendosi un bel bagno nei bagni pubblici più lussuosi della città.
    Nello spogliatoio comune incontra un conoscente che lo canzona per quelle schifezze che porta ancora ai piedi e che sono la barzelletta della città; incurante delle beffe, Abu Kassem lascia lì le inconfondibili babbucce e se ne va a fare le sue abluzioni.
    Quando rientra in spogliatoio, sbarbato e rilassato, meraviglia!
    Al posto delle sue vecchie e consunte babbucce ce n’è un altro paio: nuove, profumate, bellissime.
    Abu Kassem pensa subito a un regalo di qualcuno, magari proprio del conoscente che lo ha canzonato poco prima, o a un misterioso ammiratore del suo genio negli affari.
    Felice come una Pasqua, si infila senza un pensiero quelle belle babbucce nuove e se ne va a casa, fischiettando.


    Il fatto è che anche il Cadì di Bagdad, che poi è il potente giudice della città, è andato ai bagni pubblici, quel giorno.
    E qual è la sua sorpresa nel trovare nello spogliatoio, al posto delle sue babbucce belle e nuova, quelle logore, stracciate e rotte, indubitabilmente di Abu Kassem? Non ce ne sono due paia simili, in tutta la città…
    Abu Kassem viene prelevato, portato al cospetto del Cadì, accusato e trovato colpevole di furto, dato che  indossa proprio le calzature del Cadì. 
    Le sue vecchie e logore babbucce gli vengono restituite, insieme a una multa salatissima.
    Abu Kassem torna a casa furibondo, macinando dentro di sé il pensiero che quelle maledette babbucce gli hanno portato sfortuna e che quindi sia, decisamente, giunto il momento di liberarsene: nella furia le getta nel Tigri, il fiume che scorre proprio sotto le finestre della sua casa.
    Ora le babbucce non gli nuoceranno più! 
    Trascorre la notte a travasare il prezioso olio di rosa nelle ampolle di cristallo, allineandole per bene su un tavolo e crogiolandosi nel pensiero dei favolosi guadagni che lo attendono.

    Il caso vuole che i pescatori di Bagdad, all’alba, trovino nelle reti delle babbucce sporche, logore, decisamente appartenenti ad Abu Kassem. 
    Rabbiosi per aver pescato quelle orribili calzature al posto dei pesci che si aspettavano, le lanciano proprio dentro la finestra della casa di Abu Kassem.
    Le diaboliche babbucce tornano…ridotte perfino peggio  di quando se ne era liberato la prima volta, e, dramma, piombano esattamente sul tavolo con le ampolle.
    Un disastro!
    Schegge di cristallo, fango, schizzi di olio ovunque, il profumo di rosa si spande in tutta la stanza…e l’affare d’oro di Abu Kassem è in frantumi.
    Abu Kassem, disperato, si strappa la barba e urla come un pazzo!
    Sente che, adesso, è fondamentale liberarsi delle babbucce: stanotte le seppellirò in giardino“, determina tra sé.
    Nottetempo, infatti, scava una buca nel suo giardino, seppellisce le babbucce e se ne torna a dormire, stranito dagli eventi degli ultimi giorni ma felice che le diaboliche babbucce siano, letteralmente, morte e sepolte.

    Il caso (?) vuole però che il vicino di casa di Abu Kassem, col quale non scorre esattamente buon sangue, proprio quella notte non riesca a prendere sonno.
    Sempre il caso vuole che il vicino sia alla finestra esattamente mentre Abu Kassem seppellisce le babbucce, e vedendo quelle strane manovre (“quello spilorcio, con tutti gli schiavi che possiede, scava da solo una fossa, per di più di notte?!? ha certamente trovato un tesoro!“), corra subito a denunciarlo.
    Infatti, per la legge, il terreno e tutto quello che il terreno contiene, tesori compresi, appartiene al Califfo.
    Ancora una volta Abu Kassem viene arrestato, portato davanti al Cadì, e per quanto fiato ci metta a cercare di spiegare che stava seppellendo le sue fantomatiche babbucce, nessuno gli crede: come sarebbe possibile che Abu Kassem l’avaro, il tirchio, che ha indossato ad oltranza quelle vergogne, se e ne liberi? oltretutto seppellendole in giardino?
    Il Cadì gli fa l’ennesima, salatissima multa.

    Liberarsi delle stramaledette babbucce diventa l’ossessione di Abu Kassem; Bagdad non è grande abbastanza, le babbucce finora gli sono sempre tornate indietro.
    Quindi il giorno successivo, di buon mattino, Abu Kassem si reca verso un grande lago fuori città: lì lascia affondare le babbucce, godendosi lo spettacolo dell’acqua che le inghiotte
    Quando torna in città si sente, finalmente, leggero.

    Il caso (ancora!) vuole, però, che il lago in cui Abu Kassem ha lasciato le babbucce sia, in realtà, la riserva idrica di Bagdad.
    Da lì a pochissimo, la città resta senz’acqua…e cosa trovano gli operai, mandati a controllare i condotti dell’acqua, ad ostruire le tubature
    Naturalmente, delle babbucce; non delle anonime babbucce qualsiasi, ma proprio quelle che, lo sanno perfino i bambini, appartengono ad Abu Kassem…

    Così, Abu Kassem viene nuovamente arrestato e portato davanti al Cadì. 
    Stavolta la multa è salatissima: Abu Kassem perde tutto il suo patrimonio per aver inquinato l’acqua della città.
    Disperato, pensa che l’unico modo per liberarsi delle babbucce della malasorte sia di bruciarle: però sono tutte inzuppate e non prendono fuoco.
    Le posa allora sulla balaustra di uno dei balconi di casa, perché si asciughino al sole.

    Ma il caso, che come vediamo è sempre in agguato, vuole che il cane di casa, incuriosito dalle babbucce, si metta a saltare per prenderle e giocarci.
    Una delle babbucce cade dal balcone, sulla strada.
    Cadendo, la babbuccia colpisce una donna incinta che stava passeggiando insieme al marito proprio lì sotto. A causa del terribile spavento, la donna purtroppo abortisce.
    Il marito, furioso e costernato, denuncia Abu Kassem per incuria.
    Abu Kassem viene ancora arrestato, portato davanti al Cadì, trovato colpevole e multato: ora gli viene confiscata la casa.

    In preda al delirio, il mercante ride come un pazzo e, tra i singulti, riesce a formulare una richiesta al Cadì: che le sue babbucce se le tenga il tribunale.
    Gli sono tornate indietro troppe volte, portandolo a perdere tutto ciò che credeva di avere.
    Ora che non ha più nulla, col cuore lieve chiede e ottiene dal Cadì che quelle babbucce non siano più le babbucce di Abu Kassem e che, qualsiasi danno possano provocare in futuro, non sia addebitabile a lui.
    Abu Kassem se ne va, scalzo e finalmente lieto, per la sua strada.

    Questa storia mi è sempre piaciuta moltissimo.
    porta a chiedersi quali siano, in questo momento, le “mie babbucce”? 
    Quali sono gli schemi di comportamento (che poi sono anche attitudini corporee) che stiamo continuando ad adottare, benché ormai logori come le babbucce di Abu Kassem? 
    Che danni sta causando il persistere in schemi antichi che, ormai, non sono più funzionali?
    “Squadra che vince non si cambia”…ma se la squadra non è più vincente, riusciamo  ad accorgercene e a cambiare o ci siamo affezionati ai nostri schemi, così confortevoli benché inutili o, peggio, dannosi?
    Se poi ci accorgiamo che le babbucce ormai sono inutilizzabili, invece di seppellirle, gettarle nel fiume, nel lago o cercare di bruciarle, non potrebbe essere sensato onorarle, dato che si tratta di una parte di noi e del nostro passato che ci ha permesso di superare alcuni ostacoli (le babbucce sono servite, in fondo, a non dover camminare scalzi, magari quando la pelle dei piedi non era pronta ad affrontare le asperità della strada)?
    A volte è utile, utilissimo, l’aiuto degli altri per notare le nostre babbucce, per onorarle e riuscire, col giusto tempo, a cambiarle senza che diventi un’ossessione distruggerle, ma conservando nella memoria il valore che hanno avuto in origine.
    *ringrazio Marilia Albanese, mia insegnante ai tempi (ormai antichi, sic!) della scuola di Gabriella Cella, che mi raccomandò il libro da cui ho tratto questa storia: “Il re e il cadavere”, di H. Zimmer
    **la prima immagine nel post è di Steve Mc Curry; per le altre immagini non so risalire agli autori
  • quelli che “Lo Specchio”

    “…siamo tutti felici, se solo lo sapessimo…”


    se fossi (ancora) più ingenua, crederei che preparare e guidare un workshop sia una cosa diversa dal partecipare; crederei che l’insegnante/facilitatore sia “fuori” dal gruppo; crederei candidamente che chi guida sappia tutto quello che succederà.
    invece (per fortuna) non è così.
    invece anche io faccio parte del gruppo ai seminari, agli incontri, alle lezioni, ai residenziali, e certo come ciascuno ho il mio punto di vista speciale, ma “faccio”, insieme agli altri, insieme al gruppo.
    partecipo fino in fondo, anche io.
    quindi tra i feedback dei partecipanti al seminario “Lo Specchio” del novembre scorso ci sono anche i miei…

    tra l’altro ‘sta cosa degli insegnanti che non fanno, che non partecipano, che non stanno nel gruppo ma che guidano da fuori francamente non mi ha mai convinta fino in fondo. 

    io non ci sono mica mai riuscita: diversamente avrei cambiato mestiere.


    “mi “sento”: durante la giornata, anche quando non sto per niente pensando alla postura, se sono sbilanciata da un lato (come mia abitudine!), automaticamente il corpo “si aggiusta” da sé, ormai da più di una settimana. Mi accorgo che mi aggiusto, e allora penso che stavo tenendo una postura squilibrata… […] La questione di guardarti allo specchio è sempre strana, io non so bene come spiegarla ma…è come se avessi la tendenza a “incantarmi” a fissarmi sullo specchio… È strano ma non inquietante, o meglio, forse inquietante un pochino lo è ma mi viene lo stesso da farlo. “

    ” la domenica del seminario ho fatto un sogno premonitore…è aumentato il mio livello energetico… mi guardo allo specchio ma non mi vedo …. ovvero funzionale a ciò che devo fare e il resto mi interessa meno. Come dire … mi vedo più dentro attraverso gli occhi che fuori … “


    “il mio volto era più rilassato a fine pratica. E questa è la cosa che più mi ha dato da pensare: sto nascondendo la mia anima dietro a infinite maschere e quindi faccio fatica a vedermi come sono realmente? [in alcuni momenti certi movimenti] mi venivano spontanei, ancora prima che tu dessi indicazioni….e mi è piaciuto, perché credo di aver sempre mancato di completa spontaneità e questa per me è prova che sto cambiando, anche in meglio  :)))) In definitiva, questo seminario mi ha fatto capire di esser cresciuta sotto un certo punto di vista, ma che la strada è ancora luuuuuuuuunga  🙂 “


    ” il lunedì sera [ero] un po’ agitata e ho riflettuto su una mia reazione [avuta durante la giornata] proprio davanti allo specchio[….] e mi sono subito calmata perché non ho visto come sempre la [me stessa] inesorabilmente invecchiata. Ho visto invece quanto sono belli i miei capelli bianchi e quanto rendano stranamente luminoso il biondo dei miei capelli ancora “giovani””


    “il lavoro fisico è stato molto bello ed ho avuto la sensazione che sarebbe stato bello continuarlo e quando abbiamo finito, solo respirando, sentivo le mie vertebre cervicali e dorsali che (facendo ciok, click, clack, toc) si sistemavano al meglio :-)”


    “mi sono accorta non essere affatto abituata alla mia immagine. mi inquietava guardarmi, dovevo vincere una resistenza, come un giudizio di fondo. la sorpresa, dopo la lotta interna in cui una parte di me cercava comunque di distrarsi, di sottrarsi, è stata trovare qualcosa di forte, autentico, molto diretto che direi addirittura bello. mi chiedo come mai, mi chiedo perché così tanta fatica per arrivare a sbirciare dietro il mio stesso sguardo, visto che poi è stato piacevole? “


    “Narciso non conosce se stesso, deve sempre vedersi riflesso, la percezione di sé solo attraverso la sua immagine […]. Conoscere se stessi attraverso un’immagine significa agire, modificare, tentare di migliorare questa immagine. Ma noi siamo un volto, un’anima, un cuore, un’intelligenza anche senza specchi e immagini”


    “mi sono resa conto che specchiarsi è vedersi per come si è. L’esperienza fatta al seminario mi ha fatto provare tenerezza per i miei difetti (fisici) e le mie fragilità (emotive)…E ho pensato “tu sei tu e andrà bene comunque”.”

    “un fatto curioso: ti guardi e scopri che sei cambiato”
  • oggi non è un altro giorno

     «È una marmellata ottima», disse la regina.


    «Tanto oggi non ne voglio.»


    «Anche se tu ne avessi voluta, non avresti potuto averne», ribatté la regina. «La regola è marmellata domani e marmellata ieri, ma non marmellata oggi.

    «Ma prima o poi ci potrà essere marmellata oggi!», obiettò Alice.

    «No, replicò la Regina. «La marmellata c’è negli altri giorni; e oggi non è un altro giorno, come dovresti sapere.»


                                                           * L. Carroll “Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò”

  • pericolose, sagge e selvagge

    “Per tutte le figlie e le anziane donne,
    prova vivente che l’anima, 
    nonostante le denigrazioni culturali affermino il contrario, nonostante le delusioni d’amore, nonostante le scelte sbagliate, nonostante gli scontri e le ferite…
    che l’anima torna ancora a vivere, ancora.

    Per tutte le figlie e le anziane donne, che da tempo siano convinte o da poco abbiano avuto l’illuminazione, 
    che nonostante le pecche, nonostante l’ego blateri il contrario, 
    la saggezza è infusa nel loro corpo e nella loro anima dalla nascita,
    e rappresenta sia la loro eredità dorata sia la loro scintilla d’oro.

    Per tutte le figlie e le anziane donne che stanno costruendo le credenziali che più hanno importanza: la prova che una donna è come un grande albero che, grazie alla sua capacità di muoversi invece che rimanere immobile, può sopravvivere alle tempeste e ai pericoli più terribili, e rimanere ancora in piedi;
    e ritrovare ancora il suo modo di ondeggiare nel vento, di continuare la danza.

    Per tutte le figlie che stanno imparando, che hanno appena iniziato o sono già a buon punto, a diventare normalmente maestose come sono chiamate ad essere. Che è tanto. Tanto. Tanto.

    Per loro, per tutti noi
    possiamo tutti 
    essere più profondi e fiorire,
    creare dalle ceneri,
    proteggere quelle arti, idee e speranze
    cui non possiamo permettere di scomparire
    dalla faccia di questa terra.
    Per tutto questo, possiamo vivere a lungo 
    e amarci l’un l’altro,
    giovani da vecchi 
    e vecchi da giovani
    per sempre.

    Clarissa Pinkola Estes, “La danza delle Grandi Madri”

    *immagine di  Vladimir Tolman
  • Il Viaggio, ovvero dell’autenticità

    Pioveva.
    Un temporale primaverile, di quelli improvvisi, totali, in cui il cielo scoppia sulla terra in secchiate d’acqua che arrivano da ogni parte.
    Ero in bicicletta e qualunque riparo sarebbe stato insufficiente, inutile.
    Pioggia in faccia, pioggia sulle dita che stringevano il manubrio intirizzite, pioggia sui pantaloni che si appiccicavano alle gambe.
    La strada era ancora lunga.
    Ero appena partita e già rivoli d’acqua scendevano fastidiosi dietro il collo, lungo la schiena, dentro la maglia, freddi.
    La pioggia negli occhi restringeva il campo visivo allo stretto necessario per non finire al centro della carreggiata invasa dall’acqua, i capelli appiccicati alla fronte, zuppi.

    Tutta quell’acqua inaspettata e inevitabile risveglia la gioia bambina dei piedi pieni nelle pozzanghere d’infanzia.
    È divertente.
    La pioggia mi scioglie il trucco in rivoli neri lungo le guance.
    Le scarpe sono gonfie d’acqua, quando mi fermo ai semafori appoggio a terra piedi fradici e galleggianti. Non c’è nulla di asciutto, ormai, ma non c’è nemmeno nulla più di fastidioso: mi sono arresa all’acqua, pedalo e sono acqua, pedalo senza accorgermene, rido del riso semplice che viene col solletico.
    All’ennesimo semaforo lo sguardo mi si appoggia sulla tettoia di un negozio a bordo strada: lì, sotto quel riparo comunque inadatto rispetto al diluvio, c’è un capannello di persone , alcuni con la bicicletta a mano. Certi mi guardano allibiti, certi condiscendenti;  la differenza tra stare sotto la tettoia e bagnarsi lo stesso, ma con disappunto o timore, e stare direttamente dentro la pioggia, spontanea e divertita.
    Pedalo via, col mio trucco sciolto, zuppa di gioia fino al midollo.

    Il Viaggio vero è quello che porta alla propria natura.
    Si cammina, con passo affannato e pesante a volte, a volte leggero e, all’improvviso, dietro un angolo, ci si imbatte in noi stessi.
    Noi stessi, mica quello che abbiamo immaginato di essere o che vorremmo gli altri vedano in noi!
    La nostra faccia vera, ripulita dalla biacca, dal trucco di scena che, magari senza saperlo o senza ricordarne i motivi, abbiamo tenuto per anni.
    Prima di vederla, andava bene così: perché affaticarsi? Perché mettersi in Viaggio?
    Perché pedalare sotto la pioggia?
    Eppure è bastato permettere anche una sola volta uno sguardo sotto i trucchi, e viene la voglia irresistibile di togliere le maschere che il tempo e l’abitudine ci hanno incollato addosso.
    Allora, l’unica possibilità è uscire da sotto la tettoia, mettersi in cammino, continuare a pedalare.

    Lo Yoga è un Viaggio.
    Un Viaggio personale che però si può condividere: ciascuno avrà il proprio passo, ciascuno avrà un modo di guardarsi specifico, ciascuno troverà quello che può o deve incontrare, ma a volte è bello muoversi insieme ad altre persone in cammino.

    *immagine di Chema Madoz
  • I Viaggi

    Lo Yoga è un Viaggio.
    Un Viaggio personale che però si può condividere: ciascuno di noi avrà il proprio passo, ciascuno avrà un modo specifico di guardarsi e di guardare, ciascuno troverà quello che può o deve incontrare, ma a volte è bello muoversi insieme ad altre persone in cammino.

    Ecco due tappe di questo viaggio speciale, che vogliamo condividere.

    Nella prima, dal 4 al 10 agosto, a Sorrento, impareremo a “Cavalcare la tigre delle emozioni”.
    Cavalcare la tigre significa fare i conti con quelle emozioni, la rabbia, ad esempio, la paura, che spesso ci portano ad agire e pensare in maniera eccessiva, incomprensibile anche a noi stessi.
    “Fare amicizia” con le emozioni non vuol dire affatto combatterle o controllarle, ma imparare a “stare” in quello che c’è, momento per momento, con consapevolezza, per saper accettare noi stessi e, di conseguenza, anche gli altri.
    Ecco che le tecniche dello Yoga, posizioni (asana), gli esercizi di respirazione (pranayama) e di concentrazione con il suono (mantra), insieme a strumenti di espressione più “convenzionali”, ci accompagneranno per far emergere ciò che, a volte, nemmeno sappiamo di essere. Per ritrovarci, al termine di questa porzione di cammino che avremo condiviso, più integri e completi.

    La seconda tappa del Viaggio, dall’11 al 18 agosto sulle colline che danno sul mare delle Marche, sarà un’ulteriore occasione di ricerca, per imparare a “Volare sulle ali dell’Intuizione”.
    Infatti, se i sensi sono ” le porte della percezione”, lo Yoga ci offre le chiavi per aprirle ed entrare, con la grazia del danzatore, nel mondo incantato dell’autentica conoscenza di noi stessi.
    Allora impareremo a riconoscere i diversi effetti delle percezioni sensoriali sul nostro corpo e sui nostri stati d’animo, con sessioni di lavoro corporeo anche a coppie, usando le tecniche che lo Yoga ci ha trasmesso e giocando con alcune manzie (tecniche di divinazione), apprenderemo a vedere al di là della vista, ascoltare oltre l’udito, gustare, toccare, annusare più in là di quello che i nostri sensi ci suggeriscono per arrivare alla percezione dell’insieme, il “sesto senso”, al magico momento in cui il lampo dell’Intuizione ci illumina.

    Buon viaggio a tutti!

    *immagine di Duy Huynh
error: Content is protected !!