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  • oggi non è un altro giorno

     «È una marmellata ottima», disse la regina.


    «Tanto oggi non ne voglio.»


    «Anche se tu ne avessi voluta, non avresti potuto averne», ribatté la regina. «La regola è marmellata domani e marmellata ieri, ma non marmellata oggi.

    «Ma prima o poi ci potrà essere marmellata oggi!», obiettò Alice.

    «No, replicò la Regina. «La marmellata c’è negli altri giorni; e oggi non è un altro giorno, come dovresti sapere.»


                                                           * L. Carroll “Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò”

  • pericolose, sagge e selvagge

    “Per tutte le figlie e le anziane donne,
    prova vivente che l’anima, 
    nonostante le denigrazioni culturali affermino il contrario, nonostante le delusioni d’amore, nonostante le scelte sbagliate, nonostante gli scontri e le ferite…
    che l’anima torna ancora a vivere, ancora.

    Per tutte le figlie e le anziane donne, che da tempo siano convinte o da poco abbiano avuto l’illuminazione, 
    che nonostante le pecche, nonostante l’ego blateri il contrario, 
    la saggezza è infusa nel loro corpo e nella loro anima dalla nascita,
    e rappresenta sia la loro eredità dorata sia la loro scintilla d’oro.

    Per tutte le figlie e le anziane donne che stanno costruendo le credenziali che più hanno importanza: la prova che una donna è come un grande albero che, grazie alla sua capacità di muoversi invece che rimanere immobile, può sopravvivere alle tempeste e ai pericoli più terribili, e rimanere ancora in piedi;
    e ritrovare ancora il suo modo di ondeggiare nel vento, di continuare la danza.

    Per tutte le figlie che stanno imparando, che hanno appena iniziato o sono già a buon punto, a diventare normalmente maestose come sono chiamate ad essere. Che è tanto. Tanto. Tanto.

    Per loro, per tutti noi
    possiamo tutti 
    essere più profondi e fiorire,
    creare dalle ceneri,
    proteggere quelle arti, idee e speranze
    cui non possiamo permettere di scomparire
    dalla faccia di questa terra.
    Per tutto questo, possiamo vivere a lungo 
    e amarci l’un l’altro,
    giovani da vecchi 
    e vecchi da giovani
    per sempre.

    Clarissa Pinkola Estes, “La danza delle Grandi Madri”

    *immagine di  Vladimir Tolman
  • Il Viaggio, ovvero dell’autenticità

    Pioveva.
    Un temporale primaverile, di quelli improvvisi, totali, in cui il cielo scoppia sulla terra in secchiate d’acqua che arrivano da ogni parte.
    Ero in bicicletta e qualunque riparo sarebbe stato insufficiente, inutile.
    Pioggia in faccia, pioggia sulle dita che stringevano il manubrio intirizzite, pioggia sui pantaloni che si appiccicavano alle gambe.
    La strada era ancora lunga.
    Ero appena partita e già rivoli d’acqua scendevano fastidiosi dietro il collo, lungo la schiena, dentro la maglia, freddi.
    La pioggia negli occhi restringeva il campo visivo allo stretto necessario per non finire al centro della carreggiata invasa dall’acqua, i capelli appiccicati alla fronte, zuppi.

    Tutta quell’acqua inaspettata e inevitabile risveglia la gioia bambina dei piedi pieni nelle pozzanghere d’infanzia.
    È divertente.
    La pioggia mi scioglie il trucco in rivoli neri lungo le guance.
    Le scarpe sono gonfie d’acqua, quando mi fermo ai semafori appoggio a terra piedi fradici e galleggianti. Non c’è nulla di asciutto, ormai, ma non c’è nemmeno nulla più di fastidioso: mi sono arresa all’acqua, pedalo e sono acqua, pedalo senza accorgermene, rido del riso semplice che viene col solletico.
    All’ennesimo semaforo lo sguardo mi si appoggia sulla tettoia di un negozio a bordo strada: lì, sotto quel riparo comunque inadatto rispetto al diluvio, c’è un capannello di persone , alcuni con la bicicletta a mano. Certi mi guardano allibiti, certi condiscendenti;  la differenza tra stare sotto la tettoia e bagnarsi lo stesso, ma con disappunto o timore, e stare direttamente dentro la pioggia, spontanea e divertita.
    Pedalo via, col mio trucco sciolto, zuppa di gioia fino al midollo.

    Il Viaggio vero è quello che porta alla propria natura.
    Si cammina, con passo affannato e pesante a volte, a volte leggero e, all’improvviso, dietro un angolo, ci si imbatte in noi stessi.
    Noi stessi, mica quello che abbiamo immaginato di essere o che vorremmo gli altri vedano in noi!
    La nostra faccia vera, ripulita dalla biacca, dal trucco di scena che, magari senza saperlo o senza ricordarne i motivi, abbiamo tenuto per anni.
    Prima di vederla, andava bene così: perché affaticarsi? Perché mettersi in Viaggio?
    Perché pedalare sotto la pioggia?
    Eppure è bastato permettere anche una sola volta uno sguardo sotto i trucchi, e viene la voglia irresistibile di togliere le maschere che il tempo e l’abitudine ci hanno incollato addosso.
    Allora, l’unica possibilità è uscire da sotto la tettoia, mettersi in cammino, continuare a pedalare.

    Lo Yoga è un Viaggio.
    Un Viaggio personale che però si può condividere: ciascuno avrà il proprio passo, ciascuno avrà un modo di guardarsi specifico, ciascuno troverà quello che può o deve incontrare, ma a volte è bello muoversi insieme ad altre persone in cammino.

    *immagine di Chema Madoz
  • I Viaggi

    Lo Yoga è un Viaggio.
    Un Viaggio personale che però si può condividere: ciascuno di noi avrà il proprio passo, ciascuno avrà un modo specifico di guardarsi e di guardare, ciascuno troverà quello che può o deve incontrare, ma a volte è bello muoversi insieme ad altre persone in cammino.

    Ecco due tappe di questo viaggio speciale, che vogliamo condividere.

    Nella prima, dal 4 al 10 agosto, a Sorrento, impareremo a “Cavalcare la tigre delle emozioni”.
    Cavalcare la tigre significa fare i conti con quelle emozioni, la rabbia, ad esempio, la paura, che spesso ci portano ad agire e pensare in maniera eccessiva, incomprensibile anche a noi stessi.
    “Fare amicizia” con le emozioni non vuol dire affatto combatterle o controllarle, ma imparare a “stare” in quello che c’è, momento per momento, con consapevolezza, per saper accettare noi stessi e, di conseguenza, anche gli altri.
    Ecco che le tecniche dello Yoga, posizioni (asana), gli esercizi di respirazione (pranayama) e di concentrazione con il suono (mantra), insieme a strumenti di espressione più “convenzionali”, ci accompagneranno per far emergere ciò che, a volte, nemmeno sappiamo di essere. Per ritrovarci, al termine di questa porzione di cammino che avremo condiviso, più integri e completi.

    La seconda tappa del Viaggio, dall’11 al 18 agosto sulle colline che danno sul mare delle Marche, sarà un’ulteriore occasione di ricerca, per imparare a “Volare sulle ali dell’Intuizione”.
    Infatti, se i sensi sono ” le porte della percezione”, lo Yoga ci offre le chiavi per aprirle ed entrare, con la grazia del danzatore, nel mondo incantato dell’autentica conoscenza di noi stessi.
    Allora impareremo a riconoscere i diversi effetti delle percezioni sensoriali sul nostro corpo e sui nostri stati d’animo, con sessioni di lavoro corporeo anche a coppie, usando le tecniche che lo Yoga ci ha trasmesso e giocando con alcune manzie (tecniche di divinazione), apprenderemo a vedere al di là della vista, ascoltare oltre l’udito, gustare, toccare, annusare più in là di quello che i nostri sensi ci suggeriscono per arrivare alla percezione dell’insieme, il “sesto senso”, al magico momento in cui il lampo dell’Intuizione ci illumina.

    Buon viaggio a tutti!

    *immagine di Duy Huynh
  • Riluttante (all’ansia)

    La poltrona sarebbe stata anche comoda ma, lì, ero legata, avevo elettrodi appiccicati alla testa, al torace e alle dita delle mani: i due camici bianchi in brevi mosse austere avevano messo sotto controllo le mie reazioni fisiologiche.
    Non era esattamente la macchina della verità, anche se una verità forte, quella volta lì, è emersa prepotente: questo è infatti il racconto di come, una strana giornata di mille anni fa, abbia scoperto (mio malgrado) il vero potere del respiro quadrato.

    Appena legata, la domanda interiore e irrimediabilmente tardiva, “perché sono qui?!?”, era già un mantra.
    Se il motivo mi fosse ancora stato chiaro, le cose forse sarebbero andate diversamente.
    Ero lì, frugata nei recessi delle mie reazioni fisiologiche, per soldi: la farmaceutica cercava ‘volontari sani’ per la fase conclusiva della sperimentazione di un medicinale contro l’ansia.
    Superati i test preliminari cui, appunto, mi stavo sottoponendo, sarei stata retribuita per partecipare alla vera e propria sperimentazione: mi era ingenuamente sembrato un modo come un altro per guadagnarmi la retta dell’università.
    Ma, esame dopo esame per arrivare a capire se sarei stata della partita, ero sempre più pentita, la motivazione economica sfumava e cercavo d’istinto le uscite di sicurezza.

    Per essere certi della mia inclinazione all’ansia, l’ansia dovevano indurmela, misurarla e, se la quantificazione fosse risultata apprezzabile, sarei passata al livello successivo; per me la cosa importante era stabilizzare un conto in banca da studentessa che oscillava paurosamente.
    L’unico mio compito, lì su quella poltrona, era respirare.
    Da una bombola, anzi due, in sequenza: una con aria-in-scatola-normale, l’altra con aria-addizionata-di-anidride-carbonica, aria ‘gassata’ in pratica. 
    Naturalmente ignoravo in quale bombola fosse l’aria normale e in quale l’aria gassata.
    Pare assodato che un minor apporto di ossigeno causi reazioni d’ansia in chiunque, ed io ero lì perché quelle che avrei spontaneamente avuto fossero misurate e catalogate.
    Fino a quel momento me l’ero cavata bene; mi ero stoicamente sottoposta a tutti i controlli medici, mi ero lasciata mettere gli elettrodi e, anche se la baldanza disinvolta che sentivo all’arrivo si era totalmente dissolta, stavo riuscendo a mantenere un contegno perlomeno dignitoso. 
    Andò abbastanza bene anche quando mi misero il boccaglio della prima bombola.
    La cosa diventò drasticamente difficile all’improvviso, quando un’innocente molletta da nuoto sincronizzato mi fu piazzata sulle narici.

    Il mio unico attacco d’ansia l’ho avuto proprio lì, e nemmeno avevo iniziato il test. 
    Saranno stati pochi secondi. Ma la concezione del tempo, dello spazio, della presenza dei camici bianchi – professionalmente gentili e distaccati – si erano liquefatte in una paura folle.
    Fatto sta che i camici bianchi, invece, c’erano eccome; quell’ansia preliminare lasciava presagire un roseo futuro da cavia per la sottoscritta: mi tolsero incautamente la molletta dal naso per meno di un minuto, proprio mentre stavo per mettermi a urlare.
    A me, non occorreva di più.
    Quel minuto cambiò le sorti del mio conto in banca e del mio impegno nella sperimentazione farmaceutica; il mio nome, che si sappia, non è tra quelli di coloro che hanno contribuito al progresso della ricerca medicinale.

    Rimessa la molletta al naso, inizia il primo round di respirazione in scatola. Finito quello, un poco di intervallo e via col secondo round.
    Mi risiedo sulla poltrona, mi lascio legare, connettere agli elettrodi, alla bombola e, al momento della fatidica molletta, resto tranquilla.
    Nessuna agitazione, niente ansia.
    Respiro, diligente, senza notare la perplessità che traspira in aloni opachi attraverso la gentilezza professionale dei camici bianchi.
    Al termine mi slegano e all’ultimo elettrodo staccato slitto immediatamente dallo status di ‘cavia’ a quello di ‘soggetto con cui interloquire’, e infatti mi chiedono quando, secondo me, avrei respirato l’aria gassata.
    Beh, la prima volta, ovviamente“.
    Ovviamente un corno” (sicuramente non con queste parole, ma il tono, sì, una crepa di umanità nell’algido distacco ambulatoriale). 
    Dice “non solo l’aria gassata era nella seconda bombola e tu non ne hai avuto percezione, ma i dati raccolti dicono che, fisiologicamente, per il tuo organismo, stavi respirando aria normale.”
    Dice “se non lo sapessi, perché ce l’ho messa io stesso l’aria gassata nella seconda bombola, mi avresti convinto, e basterebbero pochi altri come te per buttare tre anni di sperimentazioni. Ma come hai fatto?

    Eh, già, come ho fatto

    Ho respirato, che tanto non avevo altro da fare.
    Ma d’istinto mi si è attivata una respirazione controllata, si chiama Pranayama nello Yoga.
    Se ci avessi pensato, naturalmente non sarebbe andata così: ero lì con una motivazione economica chiara e lampante.
    Invece, assaggiata appena l’ansia, una ribellione interiore ha messo in campo l’antidoto, il respiro quadrato, e l’unico risultato fu poi leggere di sfuggita, sul fascicolo che mi riguardava, la dicitura “resistente all’ansia”.
    Diciamo la verità, essere legati a una poltrona e ridotti a cavie non è esattamente la situazione ottimale per un Pranayama.
    Eppure è accaduto, e il Pranayama ha imbrogliato tutti: è venuto fuori un ritmo di respiro, un ritmo facile.
    Per quaranta minuti ogni round, se ricordo bene.
    E nessuno, nemmeno il mio cuore, nemmeno il mio cervello, si è accorto dell’aria gassata che entrava…il vero antidoto all’ansia, alla faccia delle farmaceutiche (e del mio conto in banca).
    * immagine di Duy Huynh

  • Il respiro quadrato – la tecnica

    Si chiama respirazione quadrata e un motivo c’è.


    Postura: la prima cosa è trovarne una che permetta di sentire la colonna vertebrale correttamente, ma comodamente, distesa e allineata
    Mollare le tensioni alla mascella, agli occhi, al volto, che, oltre ad accomunare la nostra espressione a quella di un fico rinsecchito, bloccano la sensazione della gola aperta e inchiodano la percezione del respiro. 
    Allargare la lingua in bocca.

    Prima di iniziare: a me piace immaginare bene il quadrato, davanti a me, ne percorro il perimetro con gli occhi della mente.
    Quattro fasi del respiro (inspiro – trattengo a polmoni pieni – espiro – trattengo a polmoni vuoti), una per ciascun lato del mio quadrato immaginato.
    Che, essendo quadrato, guarda un po’ ha quattro lati e quattro angoli, uguali tra loro.
    Ciascuna fase del respiro ha quindi la stessa durata delle altre.

    Inizio: svuoto i polmoni. Il punto zero è sempre a polmoni vuoti e, da lì, posso cominciare.

    Il ritmo: conto i battiti del cuore
    – Inspiro per sette battiti (ad esempio, eh!), 
    – trattengo per altri sette, 
    – espiro sempre per la durata di sette battiti, 
    – trattengo a vuoto per sette….
    Al primo quadrato i battiti del cuore non sono regolari nelle diverse fasi; rallentano in espirazione, accelerano nei trattenimenti. 
    Al secondo giro sul mio quadrato, il cuore si è già adattato, il ritmo è regolare, pacifico.
    Ma si possono contare i tempi anche senza contare i battiti, basta un conto mentale per assicurarsi che i lati del quadrato siano in sintonia. Tra l’altro la durata dei tempi, quando tutto è quieto, si allunga, è come se i quadrati di respiro diventassero più grandi
    Come se il respiro creasse spazio…e ci si accorge che il respiro esiste già, da sempre, è lì e accade e non serve altro.  
    Sboccia l’autocontrollo, come un fiore, contraddizione in termini eppure così vero!

    Il segreto, è il ritmo.

    E’ semplice, è lasensazione di poterlo continuare all’infinito, senza stanchezza: infatti il primo accenno di fatica significa che il ritmo non è più comodo, allora si lascia immediatamente che il respiro si accomodi meglio, naturalmente, come vuole. 
    Si può invertire il verso in cui si percorre il quadrato ad ogni ciclo, alternando cicli in senso orario a cicli in senso antiorario; questo richiede attenzione e ci si distrae meno facilmente.

    A cosa serve il respiro quadrato?
    Calma l’ansia, porta equilibrio e centratura: QUI una piccola storia personale.
    Per alcune persone il trattenimento a polmoni vuoti in particolare risulta sgradevole. Come fare, allora?
    Beh, c’è un’altra facilissima tecnica di respirazione che viene in soccorso di tutti, ma proprio tutti tutti!
    …a presto!

    * purtroppo non posso risalire all’autore/autrice dell’immagine, me ne scuso.
  • (metterci) la faccia

    “Taglia”, dico.


    Nuda e cruda, la voglio.
    La verità.
    L’autenticità.
    Glielo dico che ho ancora lo shampoo addosso, mentre mi lava i capelli. “Quanto?”
    “Molto”.
    Ci sono specchi dappertutto, qui dentro: le donne controllano il risultato del suo lavoro, sembra che si guardino con gli occhi della gente fuori dalla vetrata del negozio, di chi cammina sul marciapiede. Io mi guardo coi miei occhi, solo quelli, tanto anche se volessi non ci riuscirei a mettermi fuori, sul marciapiede, e osservarmi da lì.
    Voglio la mia faccia, i lineamenti del viso, così come sono. E se il mondo deve guardarmi, che possa vedermi dritto, senza cornici.

    Quand’ero piccola, mia mamma mi pettinava.
    Aveva sempre fretta, era di corsa.
    Mi prendeva, e mi pettinava. Con quei pettini, non so se esitano ancora perché non ne ho più visti, quei pettini con denti larghi da un lato e più stretti dall’altro, fatti apposta per sciogliere i nodi piano, con dolcezza, prima i più grossi, poi i più piccini.
    Solo che lei aveva fretta, e non faceva piano.
    Solo che io sono riccia.
    Chi ha capelli ricci mi capisce di sicuro: venire pettinata era una tortura. Mi colavano lacrime lungo le guance, fino al mento e io non sapevo trattenerle.
    Era il momento peggiore della giornata.

    “Perché non ti pettini? Non ti metti in ordine?”
    I boccoli scuri mi incorniciano il viso, sempre stralunati. Me li taglio da sola, che tanto sono ricci e nessuno si accorge se sono irregolari.
    “I capelli ricci non si pettinano, mamma”.
    Imperterrita, ogni volta che mi vede, la prima cosa che dice mentre sono ancora sulla porta è sempre quella.
    “Perché non ti pettini?”. Lo ripete come un mantra.
    Ripenso alla bimba con le lacrime lungo le guance e mi arrendo: te lo devo proprio dimostrare, perché non mi pettino.
    Così vado nel suo bagno e cerco il pettine. Ovviamente lo trovo, i tempi sono cambiati e adesso ha solo denti a distanze omogenee.
    Lo prendo e piano, dolcemente, mi pettino. Passo i ricci uno alla volta, con cura.
    Ci vuol pazienza, quando arrivo alla nuca ho le braccia stanche e pesanti.
    “Il pranzo si raffredda! Cosa combini?!”
    Arrivo a tavola coi capelli pettinati e l’aria trionfante di chi ha corretto un errore antico.
    “Oddio, ma che hai fatto?”.
    Eccomi appena uscita dal tunnel del vento, la testa completamente elettrizzata, pettinata e vittoriosa: ho finalmente messo la parola fine ad anni e anni della stessa domanda, reiterata, ripetuta, ribattuta, una goccia cinese eterna, sicura come la notte dopo il tramonto.
    Quello che da bambina non sapevo fare.

    “Perché non ti pettini?” Mi apre la porta sorridendo.
    Non ricorda il tunnel del vento, forse, ma è ancora troppo giovane per l’Alzheimer.
    Mi scrollo di dosso la domanda. Mi arrendo, stavolta sul serio. Non mi pettino, è un dato di fatto e i fatti non hanno bisogno dell’approvazione di nessuno, nemmeno della sua.

    Ci ho provato.
    Ci ho provato a pettinarmi, a stare in ordine.
    Mi sono pettinata, e mi sono laureata in giurisprudenza.
    Mi sono pettinata, e ho lavorato in azienda.
    Ma i miei ricci non si pettinano.
    La verità è questa.

    Gradualmente ho guardato in faccia la mia faccia vera, e ho visto le lacrime di tutti i pettini che mi ero lasciata imporre.
    Ci ho messo del tempo per trovarmi e non sempre mi sento intera, ma mi alleno ad essere autentica.
    Non perché dico quello che penso.
    La verità è oltre, o forse prima, è accorgersi delle maschere che ho addosso, messe lì chissà quando e rimaste appiccicate, a soffocare la spontaneità, a sprecare vita.
    Autenticità è toglierle, giorno dopo giorno.
    Incarnare la propria verità è un dato di fatto e i fatti, appunto, non hanno bisogno dell’approvazione di nessuno.

    Ero all’università quando lo Yoga mi ha trovata, mi ha attecchito dentro e ha messo giù una radice così profonda che non so proprio dove arrivi e nemmeno me lo chiedo.
    Essere colta dallo Yoga mi ha mostrato che i nodi venivano da quell’abitudine sottopelle a sentirmi, in fondo, sempre spettinata, sempre controcorrente, anche se non potevo, non potevo proprio pettinarmi e vivere una vita che non sentivo appartenermi.
    Ho lasciato il lavoro senza rimpianti perché non mi somigliava: e io, per somigliare a quel lavoro per cui provavo comunque interesse, mi dovevo mascherare. “Lo facciamo tutti”, sospirava con rassegnazione la mia amica e collega.
    Forse sì, ma diversamente da altri ho bisogno di poterla vedere bene, la mia faccia.

    “Taglia”, ho detto.
    Erano anni che mi arrangiavo i capelli da sola, ma non bastavano più i ricci stralunati.
    Volevo andare alla radice.
    Allora ha tagliato, molto corto.

    Adesso la mia faccia è nitida.
    Quando non mi sento in armonia passo le dita sulla testa, sento lo spessore minimo dei capelli e tiro un respiro di sollievo. Guardo agli anni trascorsi a pettinarmi con un pettine a denti sempre più larghi, penso a tutto il tempo e le lacrime che ci ho messo e non rinuncerei mai alla mia faccia, adesso che ce l’ho.

    A Ferragosto la piazza in cui abito si riempie di migliaia di persone che vengono da tutta la provincia per vedere i fuochi d’artificio. È un carnaio impensabile.
    Sono rientrata in città giusto alla fine dello spettacolo, quando l’oceano umano si muove compatto come il cemento verso gli sbocchi della piazza, verso casa propria.
    Era quasi impossibile fendere la marea umana.
    Ero in senso opposto: loro venivano via, io stavo arrivando.
    Arrancavamo tutti, loro e io, in direzioni contrarie.
    Un signore anziano che, come tutti, avanzava lento, irritato dall’ostacolo che rappresentavo sul suo cammino, mi ha apostrofata furente:
    “Signorina, guai ad andare controcorrente!”
    Gli ho sorriso,
    “Lo dice lei!”.

  • uscita (fuga?)



    “Gatto del Cheshire – chiese Alice – mi diresti per favore che strada devo prendere per andarmene di qui?”

    “Dipende molto da dove vuoi andare” rispose il Gatto.


    “Non mi importa molto il dove”, disse Alice.


    “Allora non importa quale strada prendi” rispose il Gatto.

    Attraverso lo specchio – Lewis Carroll
  • tutto cambia

    “ciò che è cambiato ieri
    di nuovo cambierà domani
    così come cambio io
    in questa terra lontana”

    mercedes sosa
    (il resto della canzone è qui)

    vigilia di Natale.
    un anno fa era vigilia d’India.
    e ora la nostalgia d’India è perfino assenza di quello zaino sempre troppo ingombrabte o del rumore assordante, continuo, che toglieva fiato e pensieri, ovunque (tranne che sulla montagna, ovvio).

    mancanza che è diventata altro: oggi, la mia India è qui.


  • tutto scorre

    grazie, antonella.

    “ho fatto un giro in cerca di risposte. 
    è difficile essere giusti, nei confronti di se stessi e degli altri, vivere una vita giusta. 
    il tempo è sempre troppo poco, anche se a volte sembra passare lento e inutile. 
    il giorno in cui non ci sarà più tempo non vorrei guardarmi indietro e rendermi conto di avere sprecato quello a mia disposizione.
    per questo ho paura di sbagliare.
    non sono le cose grandi a fare grande la vita, spesso sono i momenti piccoli, gli stati inafferrabili in cui si è in armonia. 
    quando non c’è differenza tra divino e umano.
    ho così tante domande e non sempre dico tutto quello che vorrei dire. 
    la paura mi frena, anche se mi piacerebbe aprire le porte e lasciare fluire parole e anima. 
    ma ho paura e non sono così sicura di voler affrontare altre ere post-atomiche.
    in un modo o nell’altro cerchiamo tutti la stessa cosa. 
    vite diverse, modi e pensieri diversi nel tentativo estremo di essere riconosciuti e accettati, di essere amati per quello che siamo, con le nostre carenze, mancanze, contraddizioni, incapacità e paure.
    semplice, così tanto da sembrare utopistico, ingenuo e infantile.
    però è tutto lì.
    se gettassimo le nostre maschere e dichiarassimo a noi stessi quello che vogliamo, se non avessimo pudore nel dimostrare ciò che siamo, se non avessimo bisogno di mettere il brutto nel bello per schermarci, se smettessimo di mostrare i denti per avvisare l’altro che siamo in grado di fare male, se riuscissimo ad abbattere i confini che abbiamo fissato, saremmo più liberi e più forti perché non avremmo più bisogno di fingerci tali.
    ognuno racconta a se stesso le bugie che più gli sono funzionali, che meglio si adattano a  un’immagine autorassicurante di se stesso. 
    nel tempo queste bugie inconsapevoli diventano insostenibili e per essere raccontate richiedono sempre più energia e rabbia, provocando dolore. Il rischio è la realizzazione del nostro personaggio a discapito della persona.
    ogni limitazione al proprio bisogno di amore, soprattutto se imposta dall’interno a salvaguardia dell’armatura che goffamente ci fa andare avanti, è una condanna all’insoddisfazione, alla solitudine profonda e all’infelicità.
    ogni atteggiamento fittizio, acquisito, pensato, premeditato, cinico, consapevole o meno che sia, è uno spreco di tempo e di vita, una deviazione dalla propria realizzazione di essere umano.
    siamo fluidi come l’acqua che si espande naturalmente ovunque, siamo uniti agli altri, nati per condividere, per scorrere liberi e crescere.”
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