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  • 7 consigli per insegnare Yoga in una città di provincia e rimanere (forse) sani di mente – parte seconda

    2. AMA I TUOI ALLIEVI (ti somigliano)          
    Lavoravo a tempo pieno in una grande azienda; mi alzavo prestissimo per praticare, scappavo dalle riunioni per insegnare ai miei corsi Yoga e spesso finivo di lavorare ai progetti aziendali a notte fonda, dopo essere rientrata dalle lezioni.
    Chi me lo faceva fare?

    Mi era chiarissimo, e ora lo è ancora di più, che lo facevo e lo faccio, per amore; adoro le “mie persone”, adoro stare nei loro universi, meravigliosi e sorprendenti, adoro studiare e insegnare Yoga.
    Sennò non potrei farlo.
    Amare le tue persone significa ascoltarle, dare valore al fatto che si organizzano (a volte pesantemente!) per venire ai tuoi corsi, seguirti ai seminari, praticare insieme a te.
    Significa, se insegni Yoga, capire al di là delle esplicitazioni, perché ogni giorno siamo differenti, comprendere di cosa c’è bisogno e cosa puoi fare per raggiungerli.
    Significa essere in grado di raggiungere tutti, o almeno provarci con sincerità totale.
    Significa conoscere il Corpo, conoscerne l’anatomia e la fisiologia, i canali energetici, rispettarne l’Armonia nella sequenza di asana, respirazione, mantra, concentrazioni.
    Di fatto, significa praticare molto, moltissimo per conto proprio, lavorare costantemente su di sé; e questo ci porta direttamente al prossimo punto…

    3. PRATICA, PRATICA, PRATICA
    “Ma anche tu, che insegni, poi per conto tuo pratichi Yoga?”
    Quesito meditabondo, posto da qualcuno che a sua volta insegna (filosofia all’università, per la precisione).
    “Ovvio. Cosa insegno, sennò?”.
    Annuisce con aria pensierosa,  “Eh, me lo ripeto spesso anche io”.
    Immagino valga per tutti coloro che insegnano, qualsiasi sia la materia.
    Pratica.
    Pratica, sennò cosa vuoi insegnare?
    Anche se hai molte classi, quello che fai non sostituisce la tua pratica personale; se si insegna, non lo si fa per se stessi:  si è a servizio degli allievi (vedi punto precedente!)
    E’ la ricerca personaleche ti porta ad avere qualcosa da condividere con le persone che guidi.
    E’ la pratica personaleche ti ha portato, bene o male, ad insegnare Yoga, giusto?
    Allora non lasciarla mai.

    4. SII CURIOSA/O (e coreaggiosa/o, a volte)
    Non basta leggere gli stessi libri e giornali di Yoga che leggono tutti gli insegnanti di Yoga che conosci, e andare agli stessi seminari e festival di Yoga a cui si iscrivono tutti gli altri insegnanti di Yoga, di cui hai sentito parlare da altri insegnanti di Yoga o che hai visto pubblicizzati nei giornali che si occupano di Yoga.
    Pratica.
    Cerca.
    E nascerà la curiosità di seguire strade/insegnamenti/discipline che potrebbero sembrare distanti dal tuo mondo e invece non lo saranno; sii curiosa/o non solo di ciò che ha l’etichetta “Yoga”, ma di tutto ciò che risuonerà in te.
    Anche quando sarai l’unica insegnante Yoga nella stanza.
    Perché quello che ti muove, che ti ispira, diventa Yoga se tu sei Yoga.
    Farà parte del tuo bagaglio, della tua ricerca, della tua Vita.
  • 7 consigli per insegnare Yoga in una città di provincia e rimanere (forse) sani di mente – parte prima

    “Voglio fare quello che hai fatto tu”- ha gli occhi lucidi di entusiasmo – “voglio una vita come la tua”.

    La guardo, e il mio sguardo implora pietà.
    Lei, implacabile, continua: – “Voglio insegnare Yoga, e vivere insegnando Yoga”.
    Lasciarmi senza parole non è facile, ma lei c’è riuscita.
    Nessuno vorrebbe davvero una vita come quella di qualcun altro, giusto?!?

    “Wow! bellissimo!” è la prima reazione di chi scopre che insegno Yoga.
    Un attimo di esitazione e arriva l’immancabile: – “Sì, ma…qual è il tuo lavoro vero?”.
    Frequentemente seguito da: – “E quante ore lavori, a settimana?”
    La verità è che studio, pratico, insegno moltissimo ma non lo penso come “lavoro”, ho uno stile di vita monacale eppure mi sveglio con un canto nel cuore, pensando “che fortuna, insegno Yoga! che fortuna, aver incontrato lo Yoga!”.
    Devo essere pazza.

    Negli ultimi tempi mi è spesso capitato che persone che condividevano la pratica con me (un modo per dire “allievi”; ho un problema con quella parola. “Allievo” implica che ci sia un’insegnante. Ma chi insegna e chi impara da chi? Beh, questo è uno dei punti di questi post) mi abbiano comunicato di voler seguire un corso insegnanti Yoga, cercando consigli per orientarsi nella ridda di offerte più o meno variopinte che popolano il web.
    Ancora più frequentemente succede che aspiranti insegnanti Yoga che non conosco affatto mi scrivano chiedendo suggerimenti, incoraggiamento, lumi…
    Deve essere una pazzia contagiosa.

    Insegno Yoga da circa tredici anni, e che qualcuno chieda/condivida un’intenzione di vita con me, è un onore che mi commuove.  
    Sia detto questo.
    Ma non è tutto solo rose, fiori e Chakra.
    Sia detto anche questo.
    E in ogni caso ci sono cose per cui nessun corso ti preparerà: quindi, ecco la mia storia.

    1. QUALE CORSO INSEGNANTI?
    Lo confesso, ho frequentato un corso insegnanti.
    E sono grata ogni giorno che passa alla mia Maestra per avermi accolta, benché fossi un’universitaria squattrinata e non dessi alcuna garanzia di cambiare idea a metà corso, tantomeno di riuscire a pagare le rate di iscrizione (diversamente dai molti altri aspiranti i cui cv stavano a pile su una scrivania, rimasti esclusi da quella tornata di papabili frequentanti della sua scuola). 
    Le sono grata per aver condiviso il suo percorso con grande generosità e per avermi sempre incoraggiata ad essere creativa e autentica, nella pratica dello Yoga e nella Vita.
    Ma non avevo alcuna intenzione di insegnare Yoga, quando l’ho iniziato: volevo solo “di più” e “più approfondito” di quella cosa lì, che per me era lo Yoga, e fare il suo corso insegnanti mi sembrava un buon modo per averla; grazieaddio, lei fu dello stesso avviso.
    Per la cronaca, si tratta di una scuola quadriennale. 
    Ci sono corsi insegnanti di un mese, di due anni. 
    Pochi arrivano a quattro, in effetti.
    Se avessi cercato una scuola al solo scopo di procurarmi un qualsiasi diploma di insegnante Yoga, ne avrei scelta una più breve e vicina, naturalmente.

    La motivazione personale è la prima cosa importante: cerca di capire se ti stai buttando in un corso insegnanti solo perché ti ha convinto una pubblicità.
    Soprattutto se si tratta di un corso che dura anni, perché la spinta che ti porta a impiegare i tuoi weekend, le tue energie e il tuo denaro può scemare, se non hai ben chiaro perché lo stai facendo.
    A me è capitato di innamorarmi del Tantra, e questo ha cambiato la mia Vita; ci sono persone che attraversano oceani e continenti perché sentono la spinta fondamentale verso un determinato insegnante/stile/scuola (degli stili di Yoga non si parlerà, in questi post, è bene avvisare).
    Ci sono persone che comprendono, altrettanto visceralmente, di volere un diploma e basta: se la molla è questa, vai nella scuola sotto casa, impara quello che devi e prendi il diploma che ti serve.
    Ascoltarsi dalle viscere e seguire il proprio istinto con lucidità e chiarezza è Yoga, anche quando si cerca di scegliere il corso insegnanti più adatto a noi.
    Quello che conta davvero è il proprio cammino personale.

  • quelli che…”Il Fiume”

    se un’esperienza non ti cambia la vita, almeno un po’, è ancora un’esperienza?
    se non fa venire a galla percezioni, sensazioni, porzioni di sé poco conosciute o addirittura inesplorate, se non aiuta a scoprirci diversi, se non ci trasforma, che esperienza è? 

    chi decide di dedicare il tempo di una mattinata domenicale praticando Yoga ad un seminario anziché, che so, poltrire a letto o  farsi una bella gita in montagna,   segue, se non proprio un’urgenza, almeno una curiosità: esplorarsi.

    ecco i feedback dei partecipanti al seminario “Il Fiume” a Padova e a Torino; come sempre, anche io partecipo mettendo la mia curiosità di me stessa e degli universi altrui, e le mie considerazioni sono mescolate alla gratitudine indicibile per coloro che, con la propria disponibilità a mettersi in gioco, mi permettono quest’esperienza.

    “per alcuni giorni mi sono sentito completamente mobile, dentro… una sensazione bellissima che ancora ho, mi basta ripensarci e mi sento fluido”.


    qualcosa è cambiato fisicamente dentro di me, e non me lo ancora ben spiegare, e non lo riesco ancora bene a capire. 
    é come se l’involucro avesse mantenuto la sua rigidità, le sue zone contratte e più o meno dolenti ed indolenzite, ma qualcosa dentro si fosse fatto più fluido. nel momento in cui vado a fare stiramenti, allungamenti, è come se sentissi che questo fluire si realizza in un maggiore allungamento e se contatto questo fluire, l’allungamento è così piacevole, interessante, coinvolgente, più intenso. 
    mi sento più a contatto e dentro un fluire come se io fossi nel fiume e il fiume fosse dentro di meun po’ questo sentire rispecchia quello che sto vivendo adesso, con la consapevolezza che il fiume, con i suoi tempi, trasformandosi o rompendo gli argini, trova sempre la sua strada.

    “con il senno di poi credo di aver sentito una pace…[…] forse il fluire è qualcosa di diverso, probabilmente sto “fluendo” adesso ma non me ne rendo conto. 
    o forse il fluire è modellare (io sono questo, tu sei un’altra cosa, nessuno annulla nessuno ma si fluisce insieme) , meno rigidità, rispetto dei confini, apprezzare ma non sempre i difetti. non straripare ma nemmeno infossarsi in una diga. 
    accettare di essere troppo a volte, e a volte troppo poco.”

    ho sorriso tutto il tempo e a volte anche riso ma non per mancanza di rispetto per il tuo lavoro e quello del gruppo ma perché le mie emozioni erano veramente incontenibili … ero stranamente euforica!!!!…mi sono lasciata trasportare come una foglia fin a quando non sono diventata io stessa il fiume…ho sentito l’acqua cristallina scorrere dentro di me e io dentro di lei!!!”

    “mi innervosisco sempre quando mi distraggo. tendo a colpevolizzare rumori, voci o suoni esterni, ma mi sono invece accorta che, quando resto davvero concentrata, niente può togliermi dall’alveo del mio fiume.”

    “sono conosciuta per una persona molto aperta e molte persone si confidano facilmente con me, ma mi sono resa conto che invece io non faccio entrare nessuno nel mio mondo e nonostante io conosca “un mondo di persone”, ma pochissime conoscono me e a volte mi sento infinitamente sola.”

    “ho respirato da subito un senso di familiarità che mi ha molto rasserenata”

    “durante quelle 3 ore ho ripercorso emotivamente tutti gli stati d’animo che avevo percorso da quando ci siamo incontrate fino a quel momento, sia i più brutti che i più belli.
    però in tutto ciò le mie emozioni erano chiare, limpide, oserei dire pure. 
    non c’era confusione, c’era solo un fluire di tutte queste emozioni forti, positive e negative, che avevano il loro posto dentro di me e semplicemente scorrevano, come doveva essere. 
    e questo l’ho ricollegato anche agli effetti dello Specchio, alla riflessione sulla mia identità.
    ovviamente il mio stato emotivo è parte di me e le mie reazioni emotive possono aiutarmi a comprendere meglio chi sono. ”

    “non è semplice trovare la giusta concentrazione in mezzo ad un gruppo di persone estranee per quanto tutte certamente animate da spirito costruttivo e partecipativo (il fiume che unisce…), eppure ho nitidamente sperimentato, anche se solo in modo “quantico” e certo per miei limiti personali, attimi di grande emozione e luminosa serenità e, credimi, almeno un paio di groppi liberatori mi sono scesi giù per la gola.”

    “lo scorrere del tempo trascorso insieme è stato talmente piacevole che l’ho vissuto con leggerezza ed armonia, due sensazioni che ancora provo.
    cammino in maniera più eretta…e se mi accorgo di essere pesante muovo tutto l’”ambaradan” ed ecco fatto, la testa ritorna al suo posto e “avanti col sole in fronte!””

    “ho scoperto di avere due spalle!

    “sono stato fiume e ho percepito molto bene il terreno, le rocce, gli argini…ho sentito il limite come opportunità e ho apprezzato la frenata della mia acqua al contatto con gli altri elementi. ho scoperto le variazioni del flusso e le ho accolte con naturalezza”

    “tornando a casa mi sono accorta che cantavo, in auto, da sola
    cantavo a squarciagola; erano anni che non cantavo”

    ora ho maggiore coscienza di ciò che scorre dentro di me, sia nel corpo fisico, sia nella sfera emotiva. mi sono sentita parte del mondo, per me meraviglioso, dei fiumi.


    questa è stata una grande rivelazione: dalle immagini che si sono succedute nelle visualizzazioni il fatto che è il mare e non la montagna il posto che più mi attira per la mia vecchiaia, so camminare sugli scogli, non sulle mulattiere di montagna…”


    “e con questa capacità di raccontare le difficili storie indiane con ironia e semplicità, rendendole comprensibili anche a me occidentale, poco incline ad abbracciare qualsiasi religiosità troppo fideistica e dogmatica, ma capace di cogliere l’essenziale della spiritualità…


    il bello della meditazione è quello che ti rimane una volta finita “l’esercitazione” del momento, per poterla portare nella vita extra spirituale di tutti i giorni.

    il giorno stesso sentivo dentro di me un fluire di energia positiva, i pensieri li osservavo ma non mi condizionavano, ero neutro.
    in questi miei ultimi 3 anni di ricerca dell’io spirituale mi è capitato di affrontare sistemi meditativi che non ho sentito miei, o che comunque non mi hanno dato quella sensazione di leggerezza e libertà che ho provato durante “il Fiume”: quando raggiungo questo stato sento che non solo mi fa bene, ma che mi carica. fosse così tutte le volte che medito!!!!
    l’importante è far scorrere tutte le emozioni come se fossero un fiume in movimento.

    navigare quel Fiume e’ stata un’esperienza strainteressante!

    fluivano emozioni cosi’ forti che ad un certo punto mi sono sentita soffocare! (ma non e’ stata una brutta sensazione!)
    sicuramente si sono liberate tensioni, infatti senza sforzo alcuno sono arrivata a posizioni che non avevo mai raggiunto, nemmeno con il corpo più allenato quando praticavo power yoga.
    inoltre, lo “zainetto” maledettamente pesante che mi porto perennemente sulle spalle, uscita di li’ era diventato piacevolmente leggero, quasi impercettibile!
    ho vissuto almeno un paio di giorni immersa in un totale stato di beatitudine con me stessa e con il resto del mondo, con una calma interiore che per me non è consuetudine. credimi, questa cosa l’ho sperimentata anche durante un’accesa (solo da parte sua) discussione con il mio capo.
    credevo quasi di essere diventata un piccolo Buddha!!!

  • Dottor Shanti e il mio CittaVrtti

    Racconto d’India di Francesco Castellano, Yogin, giocoliere, arrampicatore e molto altro. Le giravolte della Vita hanno stranamente – ma nemmeno troppo – legato il suo viaggio ad un altro cammino indiano, il mio, avvenuto un anno prima (almeno così dicono i calendari…). Grazie mille, Francesco!
    ———-
    Dr.Shanti– Che ci fai qui in India?

    Citta Vrtti- Sempre bello cominciare con una domanda, non trovi?
    D- (ci pensa un attimo)Perchè secondo te?
    C- Ora però nei stai facendo troppe…
    D- Rispondi a quella che preferisci
    C– Nella domanda c’è la libertà del possibile, c’è il divenire, l’aspettativa, il desiderio, quindi la curiosità.. nella risposta c’è definizione e troppe definizioni annoiano la Verità… non sarebbe bello rispondere sempre con altre domande?
    D– (di nuovo pausetta) Una buona risposta ha bisogno di un buon ascolto… forse basterebbe aspettare un attimo in più, anche solo il tempo di un buon respiro… o no?
    C– (respiro) Come nel Corano: c’è scritto qualcosa come “se quello che dici non è più nobile e meraviglioso del suono del silenzio, allora taci”.
    D– (pausa)
    C– (pausa)
    D– (pausa)
    C– (pausa)
    così per 89  pause poi
    D– Hai letto il Corano?
    C– No, l’ho sentito in un film.
    D– (pausa)
    C– (pausa)
    cosi’ di nuovo per 101 volte…


    D– Si, ma che ci fai qui in India?
    M– Possiamo dire “Karnataka”? India è così grande e dispersivo… troppo.. troppo.. hai capito?
    D– No, ma va bene lo stesso: solo inizia a rispondere che se no perdiamo il filo…
    C– E cosa c’e’ di sbagliato nel perdere il filo?
    D– (pausa) vabbè: che cosa ci fai qui i Karnataka?
    M– (respiro lungo e goduto) per prima cosa..
    D– (Avvicinandosi un po’) Siiii
    M– … secondo me..
    D– Siii
    C– ..vince “Cosa” e io mi sa che ho perso.
    D– (attonito e silenzioso)
    C– ..come il filo.
    D– eh?
    C– Secondo me, per prima cosa, vince Cosa e io perdo…
    Il Dr.Shanti non dice più nulla chiude gli occhi e inizia a respirare tranquillo. Poi le braccia come due serpenti in attacco, sferrano le mani verso il mio Citta Vrtti  che rimane paralizzato. I pollici del dottore pressano su Anahata e Aj’na chakra e intorno a quei due centri inizia a colorarsi tutto   con tonalità verde bosco di Faggi e Castagni. Il colore si espande e ricopre man mano tutto il corpo…

    …dopo un po’…  
    D– Che ci fai qui in India?
    C– Digiuni, mezzi digiuni, yoga, ozio, costellazioni, clacson, fuochi sulla spiaggia, sorrisi, quel movimento della testa, Sab kuchh milega, cocchi da bere, mucche, lune piene, charas, nepalese, falo’ d’immondizia, odori, profumi o puzze che siano, bere da una bottiglia di plastica, montagnette di colori al mercato, notti in bianco, lune piene, luna un po’ storta, cacarella, guida nell’altro senso, giocoleria, coconutlassi, bananalassi, banglassi, tuk tuk, sarebbe bello fare uno progettospettacolo sulla spazzatura, tali, dal fry, masala dosa, camion agghindati a tempietti, scimmie…
    D– …un verbo. (e lascia la digitopressione sui due chakra)
    C– Masticare.
    D– Ovvero?
    C– In viaggio devo masticare bene il cibo fino a renderlo un poltiglione, un succo triturato da bere e da far conoscere al mio stomaco in una informa amichevole, più facile da digerire… e lo stesso per i nuovi incontri, nel gusto delle nuove scoperte, di tutti questi colori, questi rumori, i ritmi, questo fumo così saporito, nella fortuna casuale (o forse no) di conoscere Maestri..
    D– Maestri?
    C– Qualcuno che ha imparato a muoversi nel reale e ci sta comodo, leggero e sereno.. qualcuno che ha già dato un’occhiata in un buco di serratura interessante e lo racconta con la sua presenza, con l’agio delle sue azioni, i tratti del viso guadagnati con il sudore di certi viaggi, certi pensieri…
    D– Qualcuno di importante?
    C– Qualcuno o qualcosa: puo’ essere una frase di un libro, un’immagine, uno spettacolo un film… a questo proposito consiglio vivamente di guardare “Harvey” con James Stewart e i cartoni animati “Surf’s Up” e  la serie “La leggenda di Aang, l’ultimo dominatore dell’aria” e “Le strane coincidenze della vita” e “Waking life” e uno spettacolo qualsiasi di Stephan Mottram e … 

    D– Hai già incontrato qualche maestro in questo viaggio?
    C– C’era questo personaggio a Gokarna che bastava guardarlo per raddrizzare un po’ più la schiena, tutte le sere andava a cercare un falo’, si sedeva e iniziava a meditare o che so io, comunque potevi vedere la sua colonna vertebrale allungarsi e animarsi come un cobra.. Poi ad Hampi c’era Vicoss, un ragazzetto indiano che mi ha insegnato che lo yoga degli indiani è dormire nel letto, infatti al mattino veniva a guardarci fare yoga e salutava l’arrivo del sole comodamente rilassato sul suo crash pad..
    D– Com’è stato ad Hampi?
    C– Un paradiso di granito, un colloquio con un elemento che mi e’ appartenuto cosi’ tanto in passato, la meraviglia di scoprire la memoria e l’intelligenza del corpo, delle dita e degli avambracci.. consumarmi di roccia, di fatica, combattere la gravità, fidarsi di chi ti fa sicura in quel momento, un tuo Amico per quel momento, visualizzare Anuman alla fine di ogni boulder, che li’ li chiamano “problems” perchè son enigmi da svelare..  se ne risolvi uno guadagni la dignità di ritornare un po’ più scimmia e un nuovo strato di pelle dura sull’ultima falange.. Quando poi finisci di arrHampicare senti e tocchi le cose meglio, più nel dettaglio, nel micro..
    D- ..E quando sei stato male?
    C– Vorrai dire quando siamo stati male, solo che tu sei scappato.
    D– Non son riuscito a stare.. scusa.
    C– Dopo il paradiso, l’inferno, direi, niente di più scontato ed equilibrato: dodici volte al cesso in una notte e al mattino cHrampi alla pancia da desiderare di morire, o piangere o vomitare o fa lo stesso basta che passi, basta tornare alla normalità… mediocre, perfetta normalità.
    D– Però non eri solo…
    C– Nel male acuto si’: sentivo le persone vicine, ma erano sfocate, c’era solo il male allo stomaco che mi faceva implodere accartocciato su me stesso… Steo però è sempre stato li’ a tenermi d’occhio e a dirmi di cercare di rilassarmi, poi Gaia e Sara mi han portato l’acqua calda per il pancino e poi poco per volta ho ricominciato a respirare normale.. ed è stato bellissimo. Come rinascere. (silenzio)
    D– Non vuoi aggiungere nient’altro?
    C– Rimarrai la prossima volta?
    D– Non te lo posso assicurare.
    (silenzio)
    D– Hai voglia di parlare di giocoleria?
    C– Ho sempre voglia diparlare di giocoleria.
    D– Perchè spesso la chiami Giocolosofia?
    C– Perchè è una conoscenza, è un viaggio fisico, ma anche mentale.. riguarda il tempo, lo spazio, l’equilibrio, l’accettazione, l’errore, l’armonia, l’elasticità, l’attenzione, il movimento continuo e inarrestabile che sta al principio di tutto…. e un sacco di altre robe, ma fondamentale è che si tratta di un gioco e quindi è anche divertente, spontaneo e selvaggio… (pausa) Hanno detto che la formula per definire il Lavoro è Forza per Spostamento… ma non hanno trovato ancora la formula per il gioco, perchè la potenza goduriosa che muove il Giocare è troppo libera e imprevedibile per essere imbrigliata…
    D– Però anche nel gioco ci son delle regole.
    C– La prima è: se non vuoi giocare, puoi non giocare; la seconda: se sei pronto ad affrontare le conseguenza puoi comunque disubbidire. Poi ogni sistema-gioco avrà le proprie regole, le proprie forme e cosi’ via.. Ma il punto è giocare tutto il resto è meno importante.
    D– Quali sono le regole della tua Giocolosofia.
    C– Divertirsi, respirare, cercare di rispettare la fluidità di un movimento continuo, non andare contro, ma accompagnare, usare meno Forza possibile, stare a vedere che succede… un po’ come nell’Aikido o nella Capoeira… un dialogo costante tra quello che propongo e quello che mi viene proposto, uno scambio per nuove scoperte.

    D– E lo Yoga?
    C– Anche lo yoga per me è un gioco, solo un po’ più egoistico, un dialogo con noi stessi sempre più nel profondo, nell’impercettibile, nel…
    D– Anche nello yoga ti diverti?
    C– La mia Maestra si chiama Beatrice e il suo è uno yoga beato: prima della meditazione dice sempre “visualizzate il vostro mezzo sorriso di Buddha”: è un’immagine che possiamo ripescare nella giornata o nel giorno prima, o puo’ essere fissa per tutte le volte… quando, spontaneamente nella visualizzazione di quel momento, ricordo o fantasia, ci verrà da sorridere, quello è il mezzo sorriso di Buddha. Non è magari divertimento, ma serenità, pace, tranquillità… profonda, come il respiro che dovrebbe scandire il tempo di tutta la pratica…
    D– Come dev’essere uno spettacolo?
    C– Dev’essere un elogio alla poesia, alla creatività e dovrebbessere Etico. O molto molto divertente, ma anche in quel caso è etico… il punto è stare con lo spettatore, farlo giocare con le sue associazioni d’idee, le immagini prese da chissà che passato, le emozioni che si rimescolano da dentro con le nuove suggestioni che proponiamo noi, con il nostro lavoro.
    D– vorrai dire gioco?
    C– Volevo dire gioco: Quando salutiamo qualcuno che non se lo aspetta o compiamo una gentilezza gratuita, quel qualcuno restituirà la gentilezza a sua volta, è contagioso… alla fine dello spettacolo lo spettatore dovrebbe avere una sensazione simile… … se no è una masturbazione teatrale… (silenzio)  
    D– Puoi riassumere tutto sto pippone con una frase tua?
    C– No, ma per fortuna ci ha pensato ciccio Nietzsche che dice “Maturità dell’uomo significa ritrovare la serietà che da fanciulli mettevamo nel giocare” o qualcosa del genere…
    D– E’ il caso di dire ooOOOOOOOMMMMMMMMmmmmmmm…
    C– …oooOOMMMMMMMMMMMMmmmmmmmmmmm
    dopo 12 minuti…
    D– OOOOMMMMMMMMmmmmmmmmmmmmmmmm
    C– OOOOMMMMMMMmmmmmmmmm….
    D– Bene, come chiudiamo?
    C– Con una domanda?

    D– Perchè no?

  • definizioni

    “troppe definizioni annoiano la Verità” (cit.)

    mettersi in contatto con le “viscere” e seguire il suggerimento che proviene dall’interno.
    le definizioni, le filosofie, le elucubrazioni su quello che si ritiene oggettivo sono noiose per tutti, Verità compresa…
    ché, oltretutto, è raro, l’”oggettivo”: allora rivalutare il “soggettivo”, l’ascolto interiore, è un buon proposito per ciascun giorno.



  • latitudine senza terra?

    Walker (Tsai Ming-liang, 2012) from vanslon on Vimeo.

    mi piace tanto stare nei suoi passi, nella sua dimensione senza spazio, nella consapevolezza estrema che lascia solo punti di riferimento interni.

    non gli importa “dove”, gli importa “come”: questa è la terra che lo orienta nel suo viaggiare.

    allora penso che, in effetti, anche io ce l’ho, una terra che conduce le mie latitudini.
    grazie a quella terra visibile mi permetto il lusso di perdermi, di togliere “certezze” (sennò diventano gabbie), ché il “come” è davvero più importante del “dove”.
    la terra che mi orienta sono le persone che amo e che mi amano; sono le “viscere” che ho imparato ad ascoltare in maniera sempre più imprescindibile nello Yoga; è viaggiare la Vita con la fiducia, cieca come solo la vera fiducia può essere, che in fondo la Vita ha sempre, sempre ragione, quando è facile e quando è faticosa, quando è leggera e quando tutto sembra bloccarsi.

    appoggio lo sguardo lungo l’argine del fiume che passa vicino alla casa in cui vivo ora e mi aspetto di vedere la figura rossa del “walker”, immobile nel suo viaggiare.

  • perdersi


    “perdersi è l’unico modo per trovare un posto che sia introvabile. altrimenti chiunque saprebbe dove trovarlo” 


    è la frase di un blockbuster, poco intellettuale, uno di quei film che ti riempiono gli occhi e svuotano il cervello.
    a volte ci sono più verità in un dialogo de “Pirati dei Caraibi” che in tonnellate di chiacchiere filosofiche.


  • le babbucce di Abu Kassem (ovvero a volte ritornano)

    Questa storia inizia a Bagdad.

    Non la Bagdad di oggi, tristemente sventrata da anni di guerra, ma quella delle Mille e una notte, crocevia di piste che attraversano il deserto, la città più grande e ricca del tempo.
    In questa città da favola vive Abu Kassem.
    è un mercante, Abu Kassem, un ricchissimo mercante tirchio: Paperon de’ Paperoni in salsa mediorientale.
    Emblema della sua leggendaria taccagneria sono le sue babbucce vecchie, sporche, logore e rattoppate, riconoscibili da chiunque tra mille altre. Perfino il più cencioso dei mendicanti si vergognerebbe di andare in giro con quegli orrori ai piedi!
    Quando gli si fa notare quanto siano malridotte le sue babbucce, Abu Kassem risponde, invariabilmente, che non si butta via qualcosa solo perché un po’ lisa.

    Questa storia inizia a Bagdad, dicevo, nel giorno in cui Abu Kassem conclude l’affare della sua vita: compra da un mercante fallito una partita di boccette di cristallo e una gran quantità di preziosissimo olio di rosa: prevede guadagni enormi dalla vendita delle singole ampolle riempite di olio.
    Decide allora di festeggiare; l’usanza di Bagdad vorrebbe che chi conclude un buon affare offra un banchetto a tutti gli amici ma Abu Kassem non ci pensa nemmeno, a far mangiare della gente a ufo sulle sue spalle!
    Festeggia allora concedendosi un bel bagno nei bagni pubblici più lussuosi della città.
    Nello spogliatoio comune incontra un conoscente che lo canzona per quelle schifezze che porta ancora ai piedi e che sono la barzelletta della città; incurante delle beffe, Abu Kassem lascia lì le inconfondibili babbucce e se ne va a fare le sue abluzioni.
    Quando rientra in spogliatoio, sbarbato e rilassato, meraviglia!
    Al posto delle sue vecchie e consunte babbucce ce n’è un altro paio: nuove, profumate, bellissime.
    Abu Kassem pensa subito a un regalo di qualcuno, magari proprio del conoscente che lo ha canzonato poco prima, o a un misterioso ammiratore del suo genio negli affari.
    Felice come una Pasqua, si infila senza un pensiero quelle belle babbucce nuove e se ne va a casa, fischiettando.


    Il fatto è che anche il Cadì di Bagdad, che poi è il potente giudice della città, è andato ai bagni pubblici, quel giorno.
    E qual è la sua sorpresa nel trovare nello spogliatoio, al posto delle sue babbucce belle e nuova, quelle logore, stracciate e rotte, indubitabilmente di Abu Kassem? Non ce ne sono due paia simili, in tutta la città…
    Abu Kassem viene prelevato, portato al cospetto del Cadì, accusato e trovato colpevole di furto, dato che  indossa proprio le calzature del Cadì. 
    Le sue vecchie e logore babbucce gli vengono restituite, insieme a una multa salatissima.
    Abu Kassem torna a casa furibondo, macinando dentro di sé il pensiero che quelle maledette babbucce gli hanno portato sfortuna e che quindi sia, decisamente, giunto il momento di liberarsene: nella furia le getta nel Tigri, il fiume che scorre proprio sotto le finestre della sua casa.
    Ora le babbucce non gli nuoceranno più! 
    Trascorre la notte a travasare il prezioso olio di rosa nelle ampolle di cristallo, allineandole per bene su un tavolo e crogiolandosi nel pensiero dei favolosi guadagni che lo attendono.

    Il caso vuole che i pescatori di Bagdad, all’alba, trovino nelle reti delle babbucce sporche, logore, decisamente appartenenti ad Abu Kassem. 
    Rabbiosi per aver pescato quelle orribili calzature al posto dei pesci che si aspettavano, le lanciano proprio dentro la finestra della casa di Abu Kassem.
    Le diaboliche babbucce tornano…ridotte perfino peggio  di quando se ne era liberato la prima volta, e, dramma, piombano esattamente sul tavolo con le ampolle.
    Un disastro!
    Schegge di cristallo, fango, schizzi di olio ovunque, il profumo di rosa si spande in tutta la stanza…e l’affare d’oro di Abu Kassem è in frantumi.
    Abu Kassem, disperato, si strappa la barba e urla come un pazzo!
    Sente che, adesso, è fondamentale liberarsi delle babbucce: stanotte le seppellirò in giardino“, determina tra sé.
    Nottetempo, infatti, scava una buca nel suo giardino, seppellisce le babbucce e se ne torna a dormire, stranito dagli eventi degli ultimi giorni ma felice che le diaboliche babbucce siano, letteralmente, morte e sepolte.

    Il caso (?) vuole però che il vicino di casa di Abu Kassem, col quale non scorre esattamente buon sangue, proprio quella notte non riesca a prendere sonno.
    Sempre il caso vuole che il vicino sia alla finestra esattamente mentre Abu Kassem seppellisce le babbucce, e vedendo quelle strane manovre (“quello spilorcio, con tutti gli schiavi che possiede, scava da solo una fossa, per di più di notte?!? ha certamente trovato un tesoro!“), corra subito a denunciarlo.
    Infatti, per la legge, il terreno e tutto quello che il terreno contiene, tesori compresi, appartiene al Califfo.
    Ancora una volta Abu Kassem viene arrestato, portato davanti al Cadì, e per quanto fiato ci metta a cercare di spiegare che stava seppellendo le sue fantomatiche babbucce, nessuno gli crede: come sarebbe possibile che Abu Kassem l’avaro, il tirchio, che ha indossato ad oltranza quelle vergogne, se e ne liberi? oltretutto seppellendole in giardino?
    Il Cadì gli fa l’ennesima, salatissima multa.

    Liberarsi delle stramaledette babbucce diventa l’ossessione di Abu Kassem; Bagdad non è grande abbastanza, le babbucce finora gli sono sempre tornate indietro.
    Quindi il giorno successivo, di buon mattino, Abu Kassem si reca verso un grande lago fuori città: lì lascia affondare le babbucce, godendosi lo spettacolo dell’acqua che le inghiotte
    Quando torna in città si sente, finalmente, leggero.

    Il caso (ancora!) vuole, però, che il lago in cui Abu Kassem ha lasciato le babbucce sia, in realtà, la riserva idrica di Bagdad.
    Da lì a pochissimo, la città resta senz’acqua…e cosa trovano gli operai, mandati a controllare i condotti dell’acqua, ad ostruire le tubature
    Naturalmente, delle babbucce; non delle anonime babbucce qualsiasi, ma proprio quelle che, lo sanno perfino i bambini, appartengono ad Abu Kassem…

    Così, Abu Kassem viene nuovamente arrestato e portato davanti al Cadì. 
    Stavolta la multa è salatissima: Abu Kassem perde tutto il suo patrimonio per aver inquinato l’acqua della città.
    Disperato, pensa che l’unico modo per liberarsi delle babbucce della malasorte sia di bruciarle: però sono tutte inzuppate e non prendono fuoco.
    Le posa allora sulla balaustra di uno dei balconi di casa, perché si asciughino al sole.

    Ma il caso, che come vediamo è sempre in agguato, vuole che il cane di casa, incuriosito dalle babbucce, si metta a saltare per prenderle e giocarci.
    Una delle babbucce cade dal balcone, sulla strada.
    Cadendo, la babbuccia colpisce una donna incinta che stava passeggiando insieme al marito proprio lì sotto. A causa del terribile spavento, la donna purtroppo abortisce.
    Il marito, furioso e costernato, denuncia Abu Kassem per incuria.
    Abu Kassem viene ancora arrestato, portato davanti al Cadì, trovato colpevole e multato: ora gli viene confiscata la casa.

    In preda al delirio, il mercante ride come un pazzo e, tra i singulti, riesce a formulare una richiesta al Cadì: che le sue babbucce se le tenga il tribunale.
    Gli sono tornate indietro troppe volte, portandolo a perdere tutto ciò che credeva di avere.
    Ora che non ha più nulla, col cuore lieve chiede e ottiene dal Cadì che quelle babbucce non siano più le babbucce di Abu Kassem e che, qualsiasi danno possano provocare in futuro, non sia addebitabile a lui.
    Abu Kassem se ne va, scalzo e finalmente lieto, per la sua strada.

    Questa storia mi è sempre piaciuta moltissimo.
    porta a chiedersi quali siano, in questo momento, le “mie babbucce”? 
    Quali sono gli schemi di comportamento (che poi sono anche attitudini corporee) che stiamo continuando ad adottare, benché ormai logori come le babbucce di Abu Kassem? 
    Che danni sta causando il persistere in schemi antichi che, ormai, non sono più funzionali?
    “Squadra che vince non si cambia”…ma se la squadra non è più vincente, riusciamo  ad accorgercene e a cambiare o ci siamo affezionati ai nostri schemi, così confortevoli benché inutili o, peggio, dannosi?
    Se poi ci accorgiamo che le babbucce ormai sono inutilizzabili, invece di seppellirle, gettarle nel fiume, nel lago o cercare di bruciarle, non potrebbe essere sensato onorarle, dato che si tratta di una parte di noi e del nostro passato che ci ha permesso di superare alcuni ostacoli (le babbucce sono servite, in fondo, a non dover camminare scalzi, magari quando la pelle dei piedi non era pronta ad affrontare le asperità della strada)?
    A volte è utile, utilissimo, l’aiuto degli altri per notare le nostre babbucce, per onorarle e riuscire, col giusto tempo, a cambiarle senza che diventi un’ossessione distruggerle, ma conservando nella memoria il valore che hanno avuto in origine.
    *ringrazio Marilia Albanese, mia insegnante ai tempi (ormai antichi, sic!) della scuola di Gabriella Cella, che mi raccomandò il libro da cui ho tratto questa storia: “Il re e il cadavere”, di H. Zimmer
    **la prima immagine nel post è di Steve Mc Curry; per le altre immagini non so risalire agli autori
  • quelli che “Lo Specchio”

    “…siamo tutti felici, se solo lo sapessimo…”


    se fossi (ancora) più ingenua, crederei che preparare e guidare un workshop sia una cosa diversa dal partecipare; crederei che l’insegnante/facilitatore sia “fuori” dal gruppo; crederei candidamente che chi guida sappia tutto quello che succederà.
    invece (per fortuna) non è così.
    invece anche io faccio parte del gruppo ai seminari, agli incontri, alle lezioni, ai residenziali, e certo come ciascuno ho il mio punto di vista speciale, ma “faccio”, insieme agli altri, insieme al gruppo.
    partecipo fino in fondo, anche io.
    quindi tra i feedback dei partecipanti al seminario “Lo Specchio” del novembre scorso ci sono anche i miei…

    tra l’altro ‘sta cosa degli insegnanti che non fanno, che non partecipano, che non stanno nel gruppo ma che guidano da fuori francamente non mi ha mai convinta fino in fondo. 

    io non ci sono mica mai riuscita: diversamente avrei cambiato mestiere.


    “mi “sento”: durante la giornata, anche quando non sto per niente pensando alla postura, se sono sbilanciata da un lato (come mia abitudine!), automaticamente il corpo “si aggiusta” da sé, ormai da più di una settimana. Mi accorgo che mi aggiusto, e allora penso che stavo tenendo una postura squilibrata… […] La questione di guardarti allo specchio è sempre strana, io non so bene come spiegarla ma…è come se avessi la tendenza a “incantarmi” a fissarmi sullo specchio… È strano ma non inquietante, o meglio, forse inquietante un pochino lo è ma mi viene lo stesso da farlo. “

    ” la domenica del seminario ho fatto un sogno premonitore…è aumentato il mio livello energetico… mi guardo allo specchio ma non mi vedo …. ovvero funzionale a ciò che devo fare e il resto mi interessa meno. Come dire … mi vedo più dentro attraverso gli occhi che fuori … “


    “il mio volto era più rilassato a fine pratica. E questa è la cosa che più mi ha dato da pensare: sto nascondendo la mia anima dietro a infinite maschere e quindi faccio fatica a vedermi come sono realmente? [in alcuni momenti certi movimenti] mi venivano spontanei, ancora prima che tu dessi indicazioni….e mi è piaciuto, perché credo di aver sempre mancato di completa spontaneità e questa per me è prova che sto cambiando, anche in meglio  :)))) In definitiva, questo seminario mi ha fatto capire di esser cresciuta sotto un certo punto di vista, ma che la strada è ancora luuuuuuuuunga  🙂 “


    ” il lunedì sera [ero] un po’ agitata e ho riflettuto su una mia reazione [avuta durante la giornata] proprio davanti allo specchio[….] e mi sono subito calmata perché non ho visto come sempre la [me stessa] inesorabilmente invecchiata. Ho visto invece quanto sono belli i miei capelli bianchi e quanto rendano stranamente luminoso il biondo dei miei capelli ancora “giovani””


    “il lavoro fisico è stato molto bello ed ho avuto la sensazione che sarebbe stato bello continuarlo e quando abbiamo finito, solo respirando, sentivo le mie vertebre cervicali e dorsali che (facendo ciok, click, clack, toc) si sistemavano al meglio :-)”


    “mi sono accorta non essere affatto abituata alla mia immagine. mi inquietava guardarmi, dovevo vincere una resistenza, come un giudizio di fondo. la sorpresa, dopo la lotta interna in cui una parte di me cercava comunque di distrarsi, di sottrarsi, è stata trovare qualcosa di forte, autentico, molto diretto che direi addirittura bello. mi chiedo come mai, mi chiedo perché così tanta fatica per arrivare a sbirciare dietro il mio stesso sguardo, visto che poi è stato piacevole? “


    “Narciso non conosce se stesso, deve sempre vedersi riflesso, la percezione di sé solo attraverso la sua immagine […]. Conoscere se stessi attraverso un’immagine significa agire, modificare, tentare di migliorare questa immagine. Ma noi siamo un volto, un’anima, un cuore, un’intelligenza anche senza specchi e immagini”


    “mi sono resa conto che specchiarsi è vedersi per come si è. L’esperienza fatta al seminario mi ha fatto provare tenerezza per i miei difetti (fisici) e le mie fragilità (emotive)…E ho pensato “tu sei tu e andrà bene comunque”.”

    “un fatto curioso: ti guardi e scopri che sei cambiato”
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