Categoria: cambiamento

  • Cambiare Vita – ovvero una Yogini su Legalcommunity

    Cambiare Vita – ovvero una Yogini su Legalcommunity

    KeYoga, Laura Voltolina, insegnante Yoga, Cambiare Vita
    disclaimer: con lo Yoga me la cavo, con la
    tecnologia ho (ampi) margini di miglioramento.
    Quindi non sono riuscita a raddrizzare
    la foto per il blog.  Nella foto: il tavolo quando era
    in progress 

    Antonella Jannelli è sensibile e appassionata; fa la freelance nel mondo del giornalismo, a tema legale e non, e contribuisce a rendere il mondo un posto migliore collaborando con alcune ONG del no profit. 
    Sul numero 34 del marzo scorso della rivista Legalcommunity è stata pubblicata l’intervista che Antonella mi ha fatto, all’interno della rubrica, tutta sua, dal titolo “Cambiare vita”; e per capire cosa ci fa una yogini all’interno di una rivista che si occupa di temi legali, è meglio leggerla…

    DA ASPIRANTE MAGISTRATO A FONDATRICE DI KEYOGA
    Dal diritto allo Yoga.
    Il passo non è breve, ma è quello che ha compiuto Laura Voltolina, 
    Laureata in giurisprudenza, ha lavorato come formatore e, successivamente, nell’area consulenza di una della più grandi multinazionali del settore.
    Poi ha deciso di utilizzare le sue capacità e il suo bagaglio professionale per creare una nuova attività, l’associazione KeYoga (keyoga.it), di cui è fondatrice e anima.
    Quando ci apre la porta, si vedono libri ovunque.
    Libri di viaggi, filosofia, cultura orientale.
    Libri studiati, sottolineati, vissuti, condivisi o ancora da leggere.
    Solo un gruppo sfugge a questo caos creativo, organizzato in quattro solide colonne: codici e manuali di diritto sono stati cristallizzati, per sempre, da un cocktail di colle viniliche e industriali, e sorreggono il suo nuovo piano di lavoro.

    In qualche modo ha voluto che il diritto continuasse a far parte della sua vita, anche se cristallizzato per sempre. Perché?
    Provengo da una famiglia di commercialisti, rigorosi e precisi, molto poco emotivi e indulgenti a idee non convenzionali o non strettamente legate al concreto.
    Quando, a 18 anni, dichiarai di volermi iscrivere a Filosofia, scese il gelo.
    Tre mesi dopo mi convinsi che, in fondo, avrei potuto realizzare i miei sogni anche studiando Giurisprudenza.
    Quali erano le sue motivazioni da studente di legge?
    Erano da poco stati uccisi Falcone e Borsellino e nell’aria si respirava il desiderio di agire, di rimettere le cose a posto. Per me diventare magistrato significava acquisire gli strumenti per intervenire nella vita delle persone, per migliorare la realtà.
    Cosa le è stato utile per la sua vita successiva?
    In primo luogo, un certo rigore e organizzazione. Oggi gestisco un’attività mia e, naturalmente, è importante programmare efficacemente tutto, inclusi risultati economici e adempimenti amministrativi.
    E poi?
    L’abitudine ad analizzare quello che vedo. “Dubitare sempre e verificare sempre”, mi dicevano, insegnandomi che le cose vanno cercate con curiosità, determinazione e buonsenso.
    Ancora oggi il buonsenso è una delle mie chiavi interpretative, anche quando costruisco percorsi Yoga per i miei allievi.
    Come ha deciso di seguire una nuova strada?
    Prima della laurea ho iniziato a praticare Yoga e, poco dopo, sono stata ammessa in un’importante scuola quadriennale per insegnanti Yoga, impegnativa quasi quanto l’università. La sera e nei weekend insegnavo e, di giorno, proseguivo il mio iniziale percorso professionale. Poi, cinque anni fa, do deciso che era il momento di dedicarmi totalmente alla mia passione.
    Come si vede ora?
    Spettinata e contenta di esserlo.

  • L’età della crescita, ovvero tre episodi di cambiamento corporeo (episodio 3)

    Yoga e cambiamento corporeo, esperienze Yoga, insegnante Yoga, KeYoga
    “fortuna che l’età della crescita l’ho passata” 
    Lo pensi con gratitudine, chiedendoti che ci fanno così tanti ragazzini suppergiù delle medie, in tram, in piena estate, ché la scuola è finita.

    Ti chiamano la memoria a quando c’eri tu, alle medie, e guardandoli sgraziati e allegri ripensi a quella parola strana che ti dicevano i medici all’epoca, e la pronunciavano seri, a volte cupi: scoliosi.
    Seguita da un sacco di altre parole e aggettivi, che volevano dire che la tua schiena lunga non la voleva smettere di crescere, andava in fretta, troppo, scappava via, e si stava accartocciando.
    A te veniva in mente il proverbio che ripeteva sempre il nonno: chi va piano va sano e va lontano, “… ma cosa corri a fare, schiena, che poi ti schianti?”.
    Di crescere, ti dicevano, si smette. 
    Se non metti il busto adesso, tra sei mesi sarà troppo tardi, dicevano, ché l’accartoccio mica si può più sistemare, dopo.
    Anzi, alcuni volevano operarti lì per lì per correggere la folle corsa della tua schiena.
    A te faceva così tanta impressione che ti rifiutavi perfino di immaginartelo.
    I più arditi arrivarono a spiegarti, con un disegno che ancora ricordi, che la tua statura un giorno sarebbe poi diminuita, che capita a tutti, è naturale.
    Spiegavano che, a un’età che quando si è molto giovani non si riesce proprio a concepire, si inizia a ritirarsi e l’accartoccio allora diventa un nodo marinaio.
    A te sembrava di essere il tuo maglione preferito quella volta che era finito nel lavaggio sbagliato, e avresti voluto tirarti fuori dalla lavatrice prima che il programma iniziasse a infeltrirti.

    A un certo punto, ricordi bene mentre scendi alla tua fermata, ti sei rifiutata di vedere altri medici.
    Di farti operare.
    Di mettere il busto.
    E ti sei tenuta la diagnosi, pensandoci sempre meno e andando avanti col resto dell’adolescenza.




    Non mi sono mai sognata di mettere in discussione quei postulati.
    Non mi sono nemmeno mai sognata di verificare, superata l’età della crescita e invertita la direzione, il numero nei documenti che indica la statura, perché i postulati sono, appunto, postulati e da un certo punto in poi gli unici numeri ufficiali che cambiano sono quelli del recapito. 
    Fino al giorno in cui qualcuno dichiara che sono certamente più alta dei centimetri scritti sulla carta d’identità.
    Ne è sicuro, vuole verificarlo, per provare di riflesso che la propria, di statura, corrisponde a quella certificata nei suoi, di documenti: di fatto siamo alti uguali, sulla carta c’è una differenza di diversi centimetri.
    Quel metro lì nella farmacia all’angolo dice che, dall’ultima misura adolescenziale, sono cresciuta.
    Due centimetri.
    (lui invece, apparentemente ne ha persi quattro, ma questa è un’altra storia).
    Mi è venuta la voglia prepotente di fare quattro chiacchiere vis-à-vis con la pletora di ortopedici che mi terrorizzarono da ragazzina, sostenendo che a ventanni non sarei più stata in grado nemmeno di camminare, “con quella schiena”…

    Anni di Yoga sono (anche)  piedi più larghi insofferenti alle calzature (soprattutto se strette e col tacco), spalle e torace che non entrano più in nessuna vecchia giacca e un guardaroba da rifare, e due centimetri in altezza guadagnati alla scoliosi che avrebbe dovuto paralizzarmi vent’anni or sono.
    Lo Yoga mi insegna, giorno per giorno, ad abitarmi in modo diverso, a scoprire con stupore sempre nuovo spazi impensati.

    La cosa più interessante, però, non è trovare un altro numero di scarpe, né cambiare la misura sui documenti.
    E’ mettere in dubbio i postulati.

    [anche qui e qui]
  • il guru nel menisco

    Yoga e consapevolezza corporea, ginocchia, allievi Yoga, KeYoga
    il cuore di un cammino di ricerca è la condivisione: le tracce lasciate da altri, magari da luoghi lontani nel tempo e nello spazio, diventano strumenti, incoraggiamenti o consigli per noi, qualcosa di utile nel nostro percorso.
    Ringrazio Savina, autrice del testo qui di seguito

    [per inciso no, non c’è nessun errore nel titolo del post: 
    benché i refusi siano abituali nei miei scritti, e – sia detto per onore di verità – nonostante le riletture e i controlli ortografici automatici (a volte a causa dei controlli automatici), qui non si narrano affatto epiche gesta di ortopedia chirurgica e, dunque, non si tratta del guru del ginocchio. 
    in questa storia il guru viene trovato, senza nemmeno averlo cercato per la verità, nel menisco, tutto qui.]

    “Cara Nanà, dopo che la risonanza magnetica aveva rilevato il danneggiamento del menisco, tutti i medici mi sconsigliavano l’intervento perché non lo ritenevano necessario, secondo loro bastava rinunciassi alle mie attività fisiche.
    Mi sentivo sconfitta e delusa perché non avevo avuto la capacità di fermarmi prima dell’infortunio, quando cioè percepivo la stanchezza e il corpo mi chiedeva di rallentare. Superbamente avevo continuato per essere come gli altri, per non perdermi nulla, ma avevo ottenuto di sentirmi l’ultima della classe, l’allieva che non si ascoltava nonostante gli anni di pratica.
    Avevo cercato di andare avanti in qualche modo, di continuare come se niente fosse, ma il continuo dolore fisico ha definitivamente abbattuto ogni mio tentativo di resistenza.
    A quel punto dovevo decidere se farmi operare o no, se volevo continuare o rinunciare.

    Nanà, lo sai che quando prendo una decisione non la cambio più, ma in quel periodo ho assistito, quasi come fossi una spettatrice, ai miei continui ripensamenti.
    Con tenacia mi sono “aggrappata” allo yoga, ma non era facile: certe posizioni non potevo eseguirle e era frustrante, la mente era un subbuglio di pensieri e mi sembrava che tutto perdesse di significato.
    Più passava il tempo, più mi innervosiva il mio continuo tentennare riguardo l’intervento, inoltre mi colpevolizzavo per come stavo affrontando il problema.

    Yoga e consapevolezza corporea, allievi Yoga, KeYoga
    Quando finalmente ho preso coscienza che mi stavo solo danneggiando e che non potevo continuare a remare contro corrente, ho deciso di cambiare atteggiamento, sono riuscita a mettere in pratica la frase “sospendere il giudizio e lasciare che accada”.
    Ed è stato incredibile, gradualmente non mi sentivo più in balia delle onde, mi sembrava che la mia strada si facesse un po’ più nitida.
    Il giorno fissato per l’intervento stentavo a riconoscermi, nessun segno di nervosismo, la mente calma, incapace di formulare un solo pensiero. In sala operatoria ho trovato naturale chiudere gli occhi e concentrarmi nell’ascolto interiore, mentre i medici si occupavano di una piccola parte di me, io mi prendevo cura di tutto il resto: mi sembrava di partecipare ad una “speciale” lezione di yoga!
    Il giorno successivo, nonostante il ginocchio gonfio, ho deciso di cominciare con gli esercizi di riabilitazione. Ma non mi riusciva assolutamente nulla, la sensazione che provavo era piuttosto strana in quanto percepivo il comando che partiva dal cervello, lo sentivo scendere attraverso il busto e poi non capivo dove si era fermato, perché si era spento da qualche parte.
    Finalmente, ho notato che se sollevavo leggermente il bacino come a mimare il gesto del ponte riuscivo nel 1° esercizio che consisteva nel piegare l’arto.
    Al termine sentivo la gamba stanca e rigida in modo assurdo, così allungando il tratto cervicale con le mani sulla nuca, riuscivo a rilassare gli arti inferiori.

    Yoga e consapevolezza corporea per guarire, KeYoga, allievi Yoga
    Con il passare dei giorni provavo dei disturbi alla schiena, mal di testa e ai cervicali, così ho dovuto “adattarmi” ulteriori esercizi, come il gesto di Brahma in versione “esclusivamente con le gambe diritte”, gli esercizi del collo appresi con l’aikido e gli esercizi di allungamento del tai chi.
    Gradualmente le mie personali lezioni portavano non solo un benessere generale, ma rapidi miglioramenti al ginocchio. Inoltre, lavorare con la paura di farmi male, mi rendeva facile osservare ed ascoltare costantemente il corpo.

    Avevo scoperto che potevo limitare le medicine tenendo rilassata la gamba e mettendo il piede in linea (altro insegnamento ricevuto per non sovraccaricare il ginocchio).
    Appena è stato possibile ho mollato le stampelle, preferivo muovermi con estrema lentezza, ma cercando di ri-educare la caviglia al movimento completo e di ritrovare la graduale flessione del ginocchio.
    Man mano che passavano i giorni aumentavano gli esercizi ed è sorto un nuovo disagio, un malessere che ho risolto con l’ennesima regola imparata a yoga: ho cambiato l’ordine di esecuzione, partivo da qualche esercizio a terra, poi raggruppavo tutti quelli in piedi, terminavo con gli ultimi a terra per successivamente concedermi il meritato riposo.

    Nanà, non è stata una passeggiata, ho dovuto imparare ad aver pazienza, ma mi sono presa anche le mie soddisfazioni; pensa che ad ogni controllo, il medico di turno andava a verificare la data dell’intervento sul computer perché, in base ai miglioramenti, non credeva fosse quella che gli dicevo io!
    Non credere però che il merito sia tutto mio, la guarigione è stata accelerata dall’aver applicato quanto ho imparato dalle attività che svolgo (e che i medici volevano abbandonassi) e dalla bravura dei maestri che hanno condiviso il loro sapere con me.
    Credo di essermi riscattata per gli errori commessi, ho acquisito maggiore sicurezza nelle mie capacità, ho capito che dentro di me ci sono gli insegnamenti ricevuti in anni di pratica, la sfida è ora riuscire ad applicarli costantemente.”
  • di abiti e altre amenità – ovvero tre episodi di cambiamento corporeo (episodio 2)

    Yoga e cambiamento, Corpo e Yoga, KeYoga, Laura Voltolina“se trattengo il fiato per tutto il matrimonio, potrei anche riuscire a non far saltare le cuciture”, dici, perplessa.         
    E’ avanti con l’età e sorride, in quel suo salotto pieno di mobili scuri troppo grandi e centrini di pizzo sotto foto in cornice, a decine, di tutte le cerimonie familiari degli ultimi quarantanni, comprese le cresime dei nipoti dei secondi cugini o giù di lì.  Sei appena entrata eppure tutto ti è noto, come se fossi andata a trovare una prozia un po’ matta che vive lontana (invece sei a meno di cinquecento metri da casa tua).


    Armeggi in apnea con la lampo per liberarti dalla morsa dell’unico Abito da Cerimonia che possiedi.
    “la giacca”, aggiunge lei, ridendo apertamente “non dovrai mica metterla, vero?”

    Somiglia davvero alla tua vecchia prozia, forse perché fa la sarta anche lei.
    In quel momento sai con sicurezza che conserva diligente i buoni sconto del supermercato, fa dello zabaione buonissimo e troverà magicamente il modo di farti respirare in quello stesso abito che poco prima ti soffocava, frutto di un incauto acquisto di oltre due anni or sono: quella volta era il matrimonio numero tre di una tua amica e tu pensavi non fosse opportuno stare nell’album di nozze con lo stesso abito dei matrimoni numero uno e due.
    Avevi deciso un investimento; ci avresti giurato di usarlo, quel vestito, in tutte le numerose occasioni di cui la fantasia aveva improvvisamente farcito la tua vita mondana (che, per la verità, somiglia piuttosto a quella di una novantenne in coma), ché certe spese una non le fa mica a cuor leggero, deve giustificarsele.
    Durante l’ultimo, delirante trasloco, eri anche miracolosamente riuscita a conservare il prezioso Abito intatto, riservandogli le cure che si dedicherebbero a un bebé in uno tsunami, per dire. 

    Nel tempo, comunque, avevi già notato nei tuoi vestiti l’antipatica tendenza a stringertisi sulle spalle (e tu per vestiti intendi acquisti occasionali strettamente necessari a non insegnare Yoga con maglie bucate).
    Davi la colpa alla scarsa qualità del materiale, cavolo, due passaggi in lavatrice e si stringono subito… non che ti sia mai curata chissà quanto dell’abbigliamento e quando l’unica cosa che ti spinge a entrare in un negozio è il prezzo sul tavolo dei rimasugli di fine stagione (di almeno cinque anni prima), la tua logica ti porterebbe a credere che un abito di un buon materiale, quell’Abito, non ti tradirebbe mai, ché la spesa è, sicuramente, valsa la pena.

    Per quasi tutte le illusioni arriva il giorno di infrangersi e questa si è frantumata a pochi giorni dalla seconda occasione di indossarlo, a distanza di quasi tre anni dalla prima (e a conferma della scarsa mondanità che ti contraddistingue), quando hai prudentemente pensato di riprovarti l’Abito.


    Indossarlo per la seconda volta mi ha spedita dritta in Via col Vento e la prima cosa che mi sono detta, mentre incredula cercavo di chiudere la cerniera, è stato “mai più cioccolata”.


    Non sono ingrassata, però; è qualcosa di diverso.
    E’ il mio torace che ha preso spazio, sicuramente più di quello che avrei mai immaginato.
    Con tante scuse alle grandi catene di rivendita di vestiario (che pure altre e molte colpe hanno),  è lo Yoga che, quatto quatto, mi ha aperto il respiro.
    Questo allargamento di spalle e torace mi costringe a “pensarmi” diversa, più larga, più “spessa”.

    E a benedire la sarta sotto casa.
    [inizia qui, continua qui]
  • quelli che…Il Sogno

    alcuni feedback dei partecipanti al workshop “Il Sogno – percorso Yoga” (di tutti i partecipanti, insegnante compresa!).


    “non so se sia effetto del seminario ma sicuramente sta aiutando..mi sento più radicata…mi sento in grado dire di “no” e […] cominciare anche a sapere cosa voglio mi fa dire più serenamente “no” senza sentirmi in colpa!  e i sogni mi aiutano a vedere più chiaramente..a pazienza…con amore…piccoli passi…”

    “sono sempre stata brava, a sognare. dirigevo i sogni, credo si chiami sogno lucido quella cosa che succede quando, all’interno del sogno, ti accorgi di stare sognando e allora puoi anche cambiare il contenuto del sogno, senza svegliarti. mi capitava spesso. 

    ho capito però che lasciar liberi i miei sogni è più divertente, e se li seguo senza dirigerli ma lasciando fare a loro, posso avere molte indicazioni più preziose su me stessa e quel che mi accade anche durante la veglia”.

    “mi sto guadagnando un luogo a mia misura anche nel mondo onirico […] mi è bastato un niente, ed una pratica fatta su misura, per poter decidere i percorsi da seguire anche in uno stato di coscienza quale il sonno è. 
    “non sempre le cose vanno come mi sono prefissata, ma anche nel caso di un sogno agitato da condizioni di malessere disagio o addirittura incubo, riesco ad uscirne […] in quel momento riprendo le redini della mia mente e la consapevolezza seminata è cresciuta, mi appartiene anche nei momenti di criticità,  mi fa uscire definitivamente dalla situazione. l’ascolto e l’ attenzione sono fondamentali”

    “io sogno sempre e sogno tanto. sogno persino nelle rare pennichelle che mi concedo. credo di poter contare sulle dita delle mani i rari incubi della mia vita.
    […] adoro ascoltare le “storie” che racconti ma la cosa, per me, singolare è verificare l’effettiva aderenza del tema dato alle sensazioni psico-fisiche che ho provato successivamente ai seminari”
    “fisicamente è stato faticoso […] faccio stretching da sempre e quasi tutte le mattine, il mio lavoro richiede grande flessibilità ed un controllo bio-meccanico e propriocettivo completo e profondo […] e insomma non credo di essere proprio un rottame umano ma la quantità di parti e micro distretti fisici che ho “scoperto” di avere è impressionante! […] temo che questo non sia altro che la manifestazione di profonde tensioni che il lavoro sul sogno consente di fare emergere. se così è, non so se preoccuparmene…”

    “una cosa l’ho osservata, che siano agitati o meno, ho più consapevolezza del mio sonno, mi ricordo di più appena sveglia quello che ho sognato, anche se poi lo dimentico, ma prima era proprio un buio totale. 
    non soffro più d’insonnia e alla mattina mi sento riposata e sveglia, riesco a concentrarmi meglio e più a lungo.
  • in principio furono i piedi, ovvero tre episodi di cambiamento corporeo (episodio 1)

    Piedi e Yoga: cambiamento corporeo, KeYoga, Laura Voltolina

    a Natale 2010 sei partita per l’India da sola e un po’ alla cieca, senza lo straccio di un piano vero e con il solo bagaglio a mano: uno zaino quasi esclusivamente stipato di medicinali omeopatici, allopatici, antibiotici per qualsiasi evenienza, il resto che servirà lo troverai in loco, meglio viaggiare leggera, hai pensato, chiedendoti con quanto sforzo “conservare in luogo fresco e asciutto, temperatura massima 18°C” si sarebbe adattato al clima locale di quell’ultimo lembo di terra indiana prima dell’oceano.
    Tra le pochissime concessioni ad elementi estranei alla sfera farmacologica ci sono i tuoi storici sandali rasoterra allacciati alla caviglia.
    avevi previsto medicinali per ogni sorta di probabile o improbabile attacco al tuo sistema immunitario, ma non avevi previsto che i sandali sarebbero stati scomodi da togliere e rimettere decine di volte al giorno, a entrare e uscire da templi, negozi, ashram e via dicendo.
    Non lo sapevi proprio (anche per via dell’assenza di un piano vero e di informazioni basilari) che, strada a parte, in quell’angolo all’estremo Sud dell’India saresti andata in giro scalza.

    Come nel civile nord Europa, che quando si entra in casa ci si tolgono subito le scarpe, anche se non sei a casa tua e hai i buchi nei calzini.
    Non ci avevi pensato, eppure nella tua italianissima casa costringi gli amici di passaggio (lo faresti anche con l’idraulico e l’elettricista se avessi il coraggio di chiederglielo) a togliersi le scarpe all’ingresso, offrendo in cambio l’obliqua comodità di pantofole-per-gli-ospiti comprate in saldo a un euro il paio e che loro trovano, giustamente, inquietanti, d’inverno, o cantando le meraviglie della libertà dei piedi scalzi, d’estate.
    Insomma, dallo sbarco in poi trascorri un tempo che valuti eccessivo ad allacciare e slacciare la fibbia degli storici sandaletti che dall’altra parte del mondo ti sembravano comodissimi ma qui ti diventano odiosi, minando la cifra di praticità essenziale dell’intero viaggio.
    Dopo la mezz’ora più lunga della tua vita su un motorino indiano insieme a due amici (se non si supera il plurale di almeno una cifra, a bordo di un mezzo qualsiasi, è chiaramente uno spreco maleducatissimo) incontrati proprio quel giorno, durante la quale avete attraversato la città e siete arrivati, inspiegabilmente illesi ma con (tuo) indiscutibile incanutimento precoce (la nonchalance degli altri passeggeri ti lascerebbe basita, se avessi fiato per notarla), alle bancarelle ai piedi del tempio, decidi di procedere all’acquisto di un paio di infradito.
    Indiane, in pura plastica che il venditore continua a cercare di convincerti essere pelle e, dopo un po’, inizi perfino a credergli o almeno fingi di farlo perché in India è così, per sopravvivere essenziale e pratica a un certo punto devi tagliare corto nelle contrattazioni.
    Tanto vincono loro comunque.
    Ti provi il tuo numero, 38 e mezzo (“toh, guarda, anche in India hanno le mezze misure!”) ma facciamo 39 ché qua camminerai parecchio e l’ultima cosa che vuoi è dover ricorrere ai medicinali (che trasporti in giro a spalla pronta ad incoraggiare, nel temutissimo momento del confronto decisivo, i tuoi pallidi e occidentali globuli bianchi rispetto ai nerboruti batteri virus e altre amenità subtropicali che popolano la tua fantasia) per curarti le piaghe infette che certamente ti martorierebbero i piedi.
    Il 39 ti è piccolo, però.
    Invece il 40 indiano ti calza a pennello, e a te sembra di aver capito come gira da queste parti.


    Invece non avevo capito niente, ma me ne sono accorta mesi dopo il rientro, nel giorno in cui, in patria, cerco un paio di scarpe nuove, in un negozio di attrezzatura sportiva, nella mia lingua e senza possibilità, né onere per la verità, di contrattazione.

    Provo il mio numero: 38 e mezzo.
    Non mi entrano in nessun modo; ma, si sa, a volte il modello calza poco…
    Il commesso mi guarda compassionevole, e dice no, guarda che non sono le scarpe.
    è il tuo piede.
    Allora misuriamolo, ‘sto piede!
    Caspita…mi sono cresciuti i piedi…

    Anni di Yoga e piedi dall’arco plantare contratto, che gli ortopedici della mia adolescenza ritenevano irrecuperabili, si sono allargati, hanno preso spazio, preso terra, mi hanno “accomodata” meglio.
    Il mio nuovo numero è davvero 40, preciso.
    Preciso in tutto il mondo.

    ps: per la cronaca, l’arsenale di medicine trasportato attraverso mezzo mondo è tornato intonso. 
    [continua, continua]

  • quelli che…”Il Fiume”

    se un’esperienza non ti cambia la vita, almeno un po’, è ancora un’esperienza?
    se non fa venire a galla percezioni, sensazioni, porzioni di sé poco conosciute o addirittura inesplorate, se non aiuta a scoprirci diversi, se non ci trasforma, che esperienza è? 

    chi decide di dedicare il tempo di una mattinata domenicale praticando Yoga ad un seminario anziché, che so, poltrire a letto o  farsi una bella gita in montagna,   segue, se non proprio un’urgenza, almeno una curiosità: esplorarsi.

    ecco i feedback dei partecipanti al seminario “Il Fiume” a Padova e a Torino; come sempre, anche io partecipo mettendo la mia curiosità di me stessa e degli universi altrui, e le mie considerazioni sono mescolate alla gratitudine indicibile per coloro che, con la propria disponibilità a mettersi in gioco, mi permettono quest’esperienza.

    “per alcuni giorni mi sono sentito completamente mobile, dentro… una sensazione bellissima che ancora ho, mi basta ripensarci e mi sento fluido”.


    qualcosa è cambiato fisicamente dentro di me, e non me lo ancora ben spiegare, e non lo riesco ancora bene a capire. 
    é come se l’involucro avesse mantenuto la sua rigidità, le sue zone contratte e più o meno dolenti ed indolenzite, ma qualcosa dentro si fosse fatto più fluido. nel momento in cui vado a fare stiramenti, allungamenti, è come se sentissi che questo fluire si realizza in un maggiore allungamento e se contatto questo fluire, l’allungamento è così piacevole, interessante, coinvolgente, più intenso. 
    mi sento più a contatto e dentro un fluire come se io fossi nel fiume e il fiume fosse dentro di meun po’ questo sentire rispecchia quello che sto vivendo adesso, con la consapevolezza che il fiume, con i suoi tempi, trasformandosi o rompendo gli argini, trova sempre la sua strada.

    “con il senno di poi credo di aver sentito una pace…[…] forse il fluire è qualcosa di diverso, probabilmente sto “fluendo” adesso ma non me ne rendo conto. 
    o forse il fluire è modellare (io sono questo, tu sei un’altra cosa, nessuno annulla nessuno ma si fluisce insieme) , meno rigidità, rispetto dei confini, apprezzare ma non sempre i difetti. non straripare ma nemmeno infossarsi in una diga. 
    accettare di essere troppo a volte, e a volte troppo poco.”

    ho sorriso tutto il tempo e a volte anche riso ma non per mancanza di rispetto per il tuo lavoro e quello del gruppo ma perché le mie emozioni erano veramente incontenibili … ero stranamente euforica!!!!…mi sono lasciata trasportare come una foglia fin a quando non sono diventata io stessa il fiume…ho sentito l’acqua cristallina scorrere dentro di me e io dentro di lei!!!”

    “mi innervosisco sempre quando mi distraggo. tendo a colpevolizzare rumori, voci o suoni esterni, ma mi sono invece accorta che, quando resto davvero concentrata, niente può togliermi dall’alveo del mio fiume.”

    “sono conosciuta per una persona molto aperta e molte persone si confidano facilmente con me, ma mi sono resa conto che invece io non faccio entrare nessuno nel mio mondo e nonostante io conosca “un mondo di persone”, ma pochissime conoscono me e a volte mi sento infinitamente sola.”

    “ho respirato da subito un senso di familiarità che mi ha molto rasserenata”

    “durante quelle 3 ore ho ripercorso emotivamente tutti gli stati d’animo che avevo percorso da quando ci siamo incontrate fino a quel momento, sia i più brutti che i più belli.
    però in tutto ciò le mie emozioni erano chiare, limpide, oserei dire pure. 
    non c’era confusione, c’era solo un fluire di tutte queste emozioni forti, positive e negative, che avevano il loro posto dentro di me e semplicemente scorrevano, come doveva essere. 
    e questo l’ho ricollegato anche agli effetti dello Specchio, alla riflessione sulla mia identità.
    ovviamente il mio stato emotivo è parte di me e le mie reazioni emotive possono aiutarmi a comprendere meglio chi sono. ”

    “non è semplice trovare la giusta concentrazione in mezzo ad un gruppo di persone estranee per quanto tutte certamente animate da spirito costruttivo e partecipativo (il fiume che unisce…), eppure ho nitidamente sperimentato, anche se solo in modo “quantico” e certo per miei limiti personali, attimi di grande emozione e luminosa serenità e, credimi, almeno un paio di groppi liberatori mi sono scesi giù per la gola.”

    “lo scorrere del tempo trascorso insieme è stato talmente piacevole che l’ho vissuto con leggerezza ed armonia, due sensazioni che ancora provo.
    cammino in maniera più eretta…e se mi accorgo di essere pesante muovo tutto l’”ambaradan” ed ecco fatto, la testa ritorna al suo posto e “avanti col sole in fronte!””

    “ho scoperto di avere due spalle!

    “sono stato fiume e ho percepito molto bene il terreno, le rocce, gli argini…ho sentito il limite come opportunità e ho apprezzato la frenata della mia acqua al contatto con gli altri elementi. ho scoperto le variazioni del flusso e le ho accolte con naturalezza”

    “tornando a casa mi sono accorta che cantavo, in auto, da sola
    cantavo a squarciagola; erano anni che non cantavo”

    ora ho maggiore coscienza di ciò che scorre dentro di me, sia nel corpo fisico, sia nella sfera emotiva. mi sono sentita parte del mondo, per me meraviglioso, dei fiumi.


    questa è stata una grande rivelazione: dalle immagini che si sono succedute nelle visualizzazioni il fatto che è il mare e non la montagna il posto che più mi attira per la mia vecchiaia, so camminare sugli scogli, non sulle mulattiere di montagna…”


    “e con questa capacità di raccontare le difficili storie indiane con ironia e semplicità, rendendole comprensibili anche a me occidentale, poco incline ad abbracciare qualsiasi religiosità troppo fideistica e dogmatica, ma capace di cogliere l’essenziale della spiritualità…


    il bello della meditazione è quello che ti rimane una volta finita “l’esercitazione” del momento, per poterla portare nella vita extra spirituale di tutti i giorni.

    il giorno stesso sentivo dentro di me un fluire di energia positiva, i pensieri li osservavo ma non mi condizionavano, ero neutro.
    in questi miei ultimi 3 anni di ricerca dell’io spirituale mi è capitato di affrontare sistemi meditativi che non ho sentito miei, o che comunque non mi hanno dato quella sensazione di leggerezza e libertà che ho provato durante “il Fiume”: quando raggiungo questo stato sento che non solo mi fa bene, ma che mi carica. fosse così tutte le volte che medito!!!!
    l’importante è far scorrere tutte le emozioni come se fossero un fiume in movimento.

    navigare quel Fiume e’ stata un’esperienza strainteressante!

    fluivano emozioni cosi’ forti che ad un certo punto mi sono sentita soffocare! (ma non e’ stata una brutta sensazione!)
    sicuramente si sono liberate tensioni, infatti senza sforzo alcuno sono arrivata a posizioni che non avevo mai raggiunto, nemmeno con il corpo più allenato quando praticavo power yoga.
    inoltre, lo “zainetto” maledettamente pesante che mi porto perennemente sulle spalle, uscita di li’ era diventato piacevolmente leggero, quasi impercettibile!
    ho vissuto almeno un paio di giorni immersa in un totale stato di beatitudine con me stessa e con il resto del mondo, con una calma interiore che per me non è consuetudine. credimi, questa cosa l’ho sperimentata anche durante un’accesa (solo da parte sua) discussione con il mio capo.
    credevo quasi di essere diventata un piccolo Buddha!!!

  • le babbucce di Abu Kassem (ovvero a volte ritornano)

    Questa storia inizia a Bagdad.

    Non la Bagdad di oggi, tristemente sventrata da anni di guerra, ma quella delle Mille e una notte, crocevia di piste che attraversano il deserto, la città più grande e ricca del tempo.
    In questa città da favola vive Abu Kassem.
    è un mercante, Abu Kassem, un ricchissimo mercante tirchio: Paperon de’ Paperoni in salsa mediorientale.
    Emblema della sua leggendaria taccagneria sono le sue babbucce vecchie, sporche, logore e rattoppate, riconoscibili da chiunque tra mille altre. Perfino il più cencioso dei mendicanti si vergognerebbe di andare in giro con quegli orrori ai piedi!
    Quando gli si fa notare quanto siano malridotte le sue babbucce, Abu Kassem risponde, invariabilmente, che non si butta via qualcosa solo perché un po’ lisa.

    Questa storia inizia a Bagdad, dicevo, nel giorno in cui Abu Kassem conclude l’affare della sua vita: compra da un mercante fallito una partita di boccette di cristallo e una gran quantità di preziosissimo olio di rosa: prevede guadagni enormi dalla vendita delle singole ampolle riempite di olio.
    Decide allora di festeggiare; l’usanza di Bagdad vorrebbe che chi conclude un buon affare offra un banchetto a tutti gli amici ma Abu Kassem non ci pensa nemmeno, a far mangiare della gente a ufo sulle sue spalle!
    Festeggia allora concedendosi un bel bagno nei bagni pubblici più lussuosi della città.
    Nello spogliatoio comune incontra un conoscente che lo canzona per quelle schifezze che porta ancora ai piedi e che sono la barzelletta della città; incurante delle beffe, Abu Kassem lascia lì le inconfondibili babbucce e se ne va a fare le sue abluzioni.
    Quando rientra in spogliatoio, sbarbato e rilassato, meraviglia!
    Al posto delle sue vecchie e consunte babbucce ce n’è un altro paio: nuove, profumate, bellissime.
    Abu Kassem pensa subito a un regalo di qualcuno, magari proprio del conoscente che lo ha canzonato poco prima, o a un misterioso ammiratore del suo genio negli affari.
    Felice come una Pasqua, si infila senza un pensiero quelle belle babbucce nuove e se ne va a casa, fischiettando.


    Il fatto è che anche il Cadì di Bagdad, che poi è il potente giudice della città, è andato ai bagni pubblici, quel giorno.
    E qual è la sua sorpresa nel trovare nello spogliatoio, al posto delle sue babbucce belle e nuova, quelle logore, stracciate e rotte, indubitabilmente di Abu Kassem? Non ce ne sono due paia simili, in tutta la città…
    Abu Kassem viene prelevato, portato al cospetto del Cadì, accusato e trovato colpevole di furto, dato che  indossa proprio le calzature del Cadì. 
    Le sue vecchie e logore babbucce gli vengono restituite, insieme a una multa salatissima.
    Abu Kassem torna a casa furibondo, macinando dentro di sé il pensiero che quelle maledette babbucce gli hanno portato sfortuna e che quindi sia, decisamente, giunto il momento di liberarsene: nella furia le getta nel Tigri, il fiume che scorre proprio sotto le finestre della sua casa.
    Ora le babbucce non gli nuoceranno più! 
    Trascorre la notte a travasare il prezioso olio di rosa nelle ampolle di cristallo, allineandole per bene su un tavolo e crogiolandosi nel pensiero dei favolosi guadagni che lo attendono.

    Il caso vuole che i pescatori di Bagdad, all’alba, trovino nelle reti delle babbucce sporche, logore, decisamente appartenenti ad Abu Kassem. 
    Rabbiosi per aver pescato quelle orribili calzature al posto dei pesci che si aspettavano, le lanciano proprio dentro la finestra della casa di Abu Kassem.
    Le diaboliche babbucce tornano…ridotte perfino peggio  di quando se ne era liberato la prima volta, e, dramma, piombano esattamente sul tavolo con le ampolle.
    Un disastro!
    Schegge di cristallo, fango, schizzi di olio ovunque, il profumo di rosa si spande in tutta la stanza…e l’affare d’oro di Abu Kassem è in frantumi.
    Abu Kassem, disperato, si strappa la barba e urla come un pazzo!
    Sente che, adesso, è fondamentale liberarsi delle babbucce: stanotte le seppellirò in giardino“, determina tra sé.
    Nottetempo, infatti, scava una buca nel suo giardino, seppellisce le babbucce e se ne torna a dormire, stranito dagli eventi degli ultimi giorni ma felice che le diaboliche babbucce siano, letteralmente, morte e sepolte.

    Il caso (?) vuole però che il vicino di casa di Abu Kassem, col quale non scorre esattamente buon sangue, proprio quella notte non riesca a prendere sonno.
    Sempre il caso vuole che il vicino sia alla finestra esattamente mentre Abu Kassem seppellisce le babbucce, e vedendo quelle strane manovre (“quello spilorcio, con tutti gli schiavi che possiede, scava da solo una fossa, per di più di notte?!? ha certamente trovato un tesoro!“), corra subito a denunciarlo.
    Infatti, per la legge, il terreno e tutto quello che il terreno contiene, tesori compresi, appartiene al Califfo.
    Ancora una volta Abu Kassem viene arrestato, portato davanti al Cadì, e per quanto fiato ci metta a cercare di spiegare che stava seppellendo le sue fantomatiche babbucce, nessuno gli crede: come sarebbe possibile che Abu Kassem l’avaro, il tirchio, che ha indossato ad oltranza quelle vergogne, se e ne liberi? oltretutto seppellendole in giardino?
    Il Cadì gli fa l’ennesima, salatissima multa.

    Liberarsi delle stramaledette babbucce diventa l’ossessione di Abu Kassem; Bagdad non è grande abbastanza, le babbucce finora gli sono sempre tornate indietro.
    Quindi il giorno successivo, di buon mattino, Abu Kassem si reca verso un grande lago fuori città: lì lascia affondare le babbucce, godendosi lo spettacolo dell’acqua che le inghiotte
    Quando torna in città si sente, finalmente, leggero.

    Il caso (ancora!) vuole, però, che il lago in cui Abu Kassem ha lasciato le babbucce sia, in realtà, la riserva idrica di Bagdad.
    Da lì a pochissimo, la città resta senz’acqua…e cosa trovano gli operai, mandati a controllare i condotti dell’acqua, ad ostruire le tubature
    Naturalmente, delle babbucce; non delle anonime babbucce qualsiasi, ma proprio quelle che, lo sanno perfino i bambini, appartengono ad Abu Kassem…

    Così, Abu Kassem viene nuovamente arrestato e portato davanti al Cadì. 
    Stavolta la multa è salatissima: Abu Kassem perde tutto il suo patrimonio per aver inquinato l’acqua della città.
    Disperato, pensa che l’unico modo per liberarsi delle babbucce della malasorte sia di bruciarle: però sono tutte inzuppate e non prendono fuoco.
    Le posa allora sulla balaustra di uno dei balconi di casa, perché si asciughino al sole.

    Ma il caso, che come vediamo è sempre in agguato, vuole che il cane di casa, incuriosito dalle babbucce, si metta a saltare per prenderle e giocarci.
    Una delle babbucce cade dal balcone, sulla strada.
    Cadendo, la babbuccia colpisce una donna incinta che stava passeggiando insieme al marito proprio lì sotto. A causa del terribile spavento, la donna purtroppo abortisce.
    Il marito, furioso e costernato, denuncia Abu Kassem per incuria.
    Abu Kassem viene ancora arrestato, portato davanti al Cadì, trovato colpevole e multato: ora gli viene confiscata la casa.

    In preda al delirio, il mercante ride come un pazzo e, tra i singulti, riesce a formulare una richiesta al Cadì: che le sue babbucce se le tenga il tribunale.
    Gli sono tornate indietro troppe volte, portandolo a perdere tutto ciò che credeva di avere.
    Ora che non ha più nulla, col cuore lieve chiede e ottiene dal Cadì che quelle babbucce non siano più le babbucce di Abu Kassem e che, qualsiasi danno possano provocare in futuro, non sia addebitabile a lui.
    Abu Kassem se ne va, scalzo e finalmente lieto, per la sua strada.

    Questa storia mi è sempre piaciuta moltissimo.
    porta a chiedersi quali siano, in questo momento, le “mie babbucce”? 
    Quali sono gli schemi di comportamento (che poi sono anche attitudini corporee) che stiamo continuando ad adottare, benché ormai logori come le babbucce di Abu Kassem? 
    Che danni sta causando il persistere in schemi antichi che, ormai, non sono più funzionali?
    “Squadra che vince non si cambia”…ma se la squadra non è più vincente, riusciamo  ad accorgercene e a cambiare o ci siamo affezionati ai nostri schemi, così confortevoli benché inutili o, peggio, dannosi?
    Se poi ci accorgiamo che le babbucce ormai sono inutilizzabili, invece di seppellirle, gettarle nel fiume, nel lago o cercare di bruciarle, non potrebbe essere sensato onorarle, dato che si tratta di una parte di noi e del nostro passato che ci ha permesso di superare alcuni ostacoli (le babbucce sono servite, in fondo, a non dover camminare scalzi, magari quando la pelle dei piedi non era pronta ad affrontare le asperità della strada)?
    A volte è utile, utilissimo, l’aiuto degli altri per notare le nostre babbucce, per onorarle e riuscire, col giusto tempo, a cambiarle senza che diventi un’ossessione distruggerle, ma conservando nella memoria il valore che hanno avuto in origine.
    *ringrazio Marilia Albanese, mia insegnante ai tempi (ormai antichi, sic!) della scuola di Gabriella Cella, che mi raccomandò il libro da cui ho tratto questa storia: “Il re e il cadavere”, di H. Zimmer
    **la prima immagine nel post è di Steve Mc Curry; per le altre immagini non so risalire agli autori
  • quelli che “Lo Specchio”

    “…siamo tutti felici, se solo lo sapessimo…”


    se fossi (ancora) più ingenua, crederei che preparare e guidare un workshop sia una cosa diversa dal partecipare; crederei che l’insegnante/facilitatore sia “fuori” dal gruppo; crederei candidamente che chi guida sappia tutto quello che succederà.
    invece (per fortuna) non è così.
    invece anche io faccio parte del gruppo ai seminari, agli incontri, alle lezioni, ai residenziali, e certo come ciascuno ho il mio punto di vista speciale, ma “faccio”, insieme agli altri, insieme al gruppo.
    partecipo fino in fondo, anche io.
    quindi tra i feedback dei partecipanti al seminario “Lo Specchio” del novembre scorso ci sono anche i miei…

    tra l’altro ‘sta cosa degli insegnanti che non fanno, che non partecipano, che non stanno nel gruppo ma che guidano da fuori francamente non mi ha mai convinta fino in fondo. 

    io non ci sono mica mai riuscita: diversamente avrei cambiato mestiere.


    “mi “sento”: durante la giornata, anche quando non sto per niente pensando alla postura, se sono sbilanciata da un lato (come mia abitudine!), automaticamente il corpo “si aggiusta” da sé, ormai da più di una settimana. Mi accorgo che mi aggiusto, e allora penso che stavo tenendo una postura squilibrata… […] La questione di guardarti allo specchio è sempre strana, io non so bene come spiegarla ma…è come se avessi la tendenza a “incantarmi” a fissarmi sullo specchio… È strano ma non inquietante, o meglio, forse inquietante un pochino lo è ma mi viene lo stesso da farlo. “

    ” la domenica del seminario ho fatto un sogno premonitore…è aumentato il mio livello energetico… mi guardo allo specchio ma non mi vedo …. ovvero funzionale a ciò che devo fare e il resto mi interessa meno. Come dire … mi vedo più dentro attraverso gli occhi che fuori … “


    “il mio volto era più rilassato a fine pratica. E questa è la cosa che più mi ha dato da pensare: sto nascondendo la mia anima dietro a infinite maschere e quindi faccio fatica a vedermi come sono realmente? [in alcuni momenti certi movimenti] mi venivano spontanei, ancora prima che tu dessi indicazioni….e mi è piaciuto, perché credo di aver sempre mancato di completa spontaneità e questa per me è prova che sto cambiando, anche in meglio  :)))) In definitiva, questo seminario mi ha fatto capire di esser cresciuta sotto un certo punto di vista, ma che la strada è ancora luuuuuuuuunga  🙂 “


    ” il lunedì sera [ero] un po’ agitata e ho riflettuto su una mia reazione [avuta durante la giornata] proprio davanti allo specchio[….] e mi sono subito calmata perché non ho visto come sempre la [me stessa] inesorabilmente invecchiata. Ho visto invece quanto sono belli i miei capelli bianchi e quanto rendano stranamente luminoso il biondo dei miei capelli ancora “giovani””


    “il lavoro fisico è stato molto bello ed ho avuto la sensazione che sarebbe stato bello continuarlo e quando abbiamo finito, solo respirando, sentivo le mie vertebre cervicali e dorsali che (facendo ciok, click, clack, toc) si sistemavano al meglio :-)”


    “mi sono accorta non essere affatto abituata alla mia immagine. mi inquietava guardarmi, dovevo vincere una resistenza, come un giudizio di fondo. la sorpresa, dopo la lotta interna in cui una parte di me cercava comunque di distrarsi, di sottrarsi, è stata trovare qualcosa di forte, autentico, molto diretto che direi addirittura bello. mi chiedo come mai, mi chiedo perché così tanta fatica per arrivare a sbirciare dietro il mio stesso sguardo, visto che poi è stato piacevole? “


    “Narciso non conosce se stesso, deve sempre vedersi riflesso, la percezione di sé solo attraverso la sua immagine […]. Conoscere se stessi attraverso un’immagine significa agire, modificare, tentare di migliorare questa immagine. Ma noi siamo un volto, un’anima, un cuore, un’intelligenza anche senza specchi e immagini”


    “mi sono resa conto che specchiarsi è vedersi per come si è. L’esperienza fatta al seminario mi ha fatto provare tenerezza per i miei difetti (fisici) e le mie fragilità (emotive)…E ho pensato “tu sei tu e andrà bene comunque”.”

    “un fatto curioso: ti guardi e scopri che sei cambiato”
  • tutto cambia

    “ciò che è cambiato ieri
    di nuovo cambierà domani
    così come cambio io
    in questa terra lontana”

    mercedes sosa
    (il resto della canzone è qui)

    vigilia di Natale.
    un anno fa era vigilia d’India.
    e ora la nostalgia d’India è perfino assenza di quello zaino sempre troppo ingombrabte o del rumore assordante, continuo, che toglieva fiato e pensieri, ovunque (tranne che sulla montagna, ovvio).

    mancanza che è diventata altro: oggi, la mia India è qui.


error: Content is protected !!